Quasi subito una testa apparve ad una feritoia e una corda scese giù ondeggiando fino alla base del muro. La ragazza afferrò la fune, mise un piede nell'anello all'estremità e agitò un braccio. Qualcuno la issò velocemente e dolcemente fino in cima al ripido bastione di pietra. Scavalcati i merli, la ragazza si trovò sul tetto piano di una casa costruita contro il muro. Vicino a una botola spalancata, un uomo, con una veste di pelo di cammello, arrotolava silenzioso la fune, senza tradire lo sforzo compiuto per sollevare una donna adulta su un muro di quaranta piedi.

«Dov'è Kerim Scia?», ansimò la donna ansando per la lunga corsa.

«Sta dormendo di sotto. Hai notizie?»

«Conan ha rapito la Devi dal forte e l'ha portata con sé fra le montagne!» Annunciò la novità tutto d'un fiato, accavallando le parole.

Khemsa non mostrò alcuna emozione, limitandosi ad annuire col capo inturbantato. «Kerim Scià sarà lieto di sentirlo,» disse.

«Un momento!» La ragazza gli mise le braccia flessuose attorno al collo. Respirava affannosamente, e non solo per lo sforzo. Al chiarore delle stelle gli occhi le rilucevano come due gemme. Il volto proteso era vicinissimo a quello di Khemsa, che si lasciò baciare senza ricambiare le effusioni.

«Non dirlo all'hyrkaniano!», ansimò la ragazza. «Sfruttiamo noi stessi questa notizia! Il Governatore è andato fra le montagne con i cavalleggeri, ma otterrebbe lo stesso risultato a dar la caccia a un fantasma. Non ha detto a nessuno che la donna rapita è la Devi. Nessuno, a Peshkhauri o nel forte, lo sa, tranne noi.»

«Ma che vantaggio ne ricaviamo?», protestò lui. «I miei padroni mi hanno mandato con Kerim Scià per aiutarlo in qualsiasi modo...»

«Aiuta te stesso!», gridò lei con veemenza. «Liberati dal giogo!»

«Vuoi dire... disobbedire ai miei padroni?», ansimò Khemsa.

La ragazza sentì che tutto il corpo dell'uomo era diventato di ghiaccio. «Sì!», esclamò, scuotendolo con passione. «Anche tu sei un Mago! Perché devi rimanere sempre schiavo e adoperare i tuoi poteri solo per la gloria di altri? Usa le tue arti per te stesso!»

«È proibito!» Khemsa tremava per la febbre malarica. «Non sono del Cerchio Nero. Solo dietro ordine dei miei Maestri oso mettere in pratica le conoscenze che mi hanno insegnato.»

«Ma puoi farlo!», notò lei appassionatamente. «Fa' come ti chiedo! È chiaro che Conan ha rapito la Devi per tenerla in ostaggio in cambio dei sette capitribù chiusi nella prigione del Governatore. Uccidi quei sette, e Chunder Shan non potrà più scambiarli con la Devi. Poi andiamo fra le montagne e strappiamo la Principessa agli Afghuli. Quei barbari non possono affrontare con i loro tulwar le tue Arti Magiche. Chiederemo come riscatto il tesoro dei Re di Vendhya... e, quando sarà in mano nostra, potremmo ingannarli e vendere la Devi al Re del Turan. Saremo più ricchi dei nostri sogni più sfrenati. Con l'oro possiamo assoldare mercenari. Possiamo impadronirci di Khorbul, scacciare i Turaniani dalle montagne, far avanzare a sud i nostri eserciti; diventare Re e Regina di un Impero!»

Anche Khemsa ansimava, scosso come una foglia nella stretta della donna; aveva il volto cinereo, imperlato di grosse gocce di sudore.

«Io ti amo!», gridò lei con passione, stringendoglisi addosso, quasi strangolandolo in un abbraccio selvaggio, scuotendolo con intensa emozione. «Di te farò un Re! Per amor tuo ho tradito la mia Signora: tradisci i tuoi padroni per amor mio! Perché hai paura dei Veggenti Neri? Per amor mio hai già infranto una delle loro leggi! Infrangi anche le altre! Tu sei potente come loro!»

Nemmeno un uomo di pietra avrebbe potuto sopportare il calore ardente di quella furia appassionata. Con un grido inarticolato Khemsa se la strinse al petto, piegandola all'indietro e cospargendole di baci ansanti il volto, gli occhi, le labbra.

«Si!», disse. Aveva la voce ispessita da passioni inenarrabili. Barcollava come un ubriaco. «Le Arti che i miei padroni mi hanno insegnato lavoreranno per me, non più per loro. Saremo i signori del mondo... del mondo.»

«Vieni allora!» Sciogliendosi con leggerezza dall'abbraccio, la ragazza gli prese la mano e lo guidò verso la botola. «Prima di tutto dobbiamo essere sicuri che il Governatore non possa scambiare i sette Afghuli con la Devi»

Khemsa si muoveva come allucinato, mentre scendevano la scaletta, per fermarsi nella stanza sottostante. Kerim Scià giaceva immobile sopra un giaciglio, con un braccio sul viso come per schermarsi gli occhi assonnati dalla debole luce di una lampada d'ottone. La ragazza tirò Khemsa per il braccio e fece un rapido gesto verso la propria gola. Khemsa alzò la mano, ma poi cambiò espressione e si tirò indietro.

«Ho spezzato il pane con lui,» mormorò. «E poi, non può interferire nei nostri piani.»

Condusse la ragazza attraverso una porta che si apriva su una scala a chiocciola. Quando l'eco dei loro passi svanì nel silenzio, l'uomo sul giaciglio si alzò, asciugandosi il sudore dalla fronte. Kerim Scià non aveva paura di una coltellata, ma temeva Khemsa come un uomo teme un rettile velenoso.

«La gente che complotta sui tetti dovrebbe ricordarsi di abbassare la voce,» mormorò. «Ma, poiché Khemsa si è messo contro i suoi padroni, e poiché era lui il mio unico contatto con loro, non posso più contare sul loro aiuto. D'ora in avanti giocherò secondo le mie regole.»

Si avvicinò rapidamente al tavolo, estrasse dalla cintura penna e pergamena, e scrisse qualche rigo succinto:

 

«A Khosru Khan, Governatore di Secunderam: Conan il Cimmero ha portato la Devi Yasmina nei villaggi degli Afghuli. È l'occasione per avere in mano nostra la Devi, come il Re ha così a lungo desiderato. Mandate subito tremila cavalieri. Li incontrerò nella valle di Gurashah.»

 

E firmò con un nome che non era affatto «Kerim Scià.» Poi, da una gabbia dorata, tolse un piccione viaggiatore alla cui zampa legò la pergamena arrotolata in un sottile cilindretto e legata con filo d'oro. Si avviò quindi a una finestra e lanciò l'animale nella notte. L'uccello ondeggiò battendo le ali, guadagnò l'equilibrio e sparì come una freccia. Kerim Scià prese elmetto, spada e mantello, e scese in fretta la scala a chiocciola.

La prigione era separata dal resto della città soltanto da un massiccio muro nel quale, sotto un arco, c'era un'unica porta con fasciami di ferro. Sopra l'arco bruciava una livida lanterna rossa e, vicino alla porta, stava accovacciato un soldato con lancia e scudo.

Costui, che se ne stava appoggiato alla lancia sbadigliando di tanto in tanto, balzò improvvisamente in piedi. Non gli sembrava di essersi appisolato, eppure davanti a lui c'era un uomo: un uomo che non aveva sentito arrivare. L'uomo indossava una veste di pelo di cammello e portava un turbante verde. Nella luce ondeggiante della lampada i suoi lineamenti apparivano confusi, ma due occhi sfuggenti rilucevano sorprendentemente nel chiarore spettrale.

«Chi va là!», chiese il soldato, puntando la lancia. «Chi sei?»

Lo straniero non parve turbato, anche se la punta della lancia gli toccava il petto. I suoi occhi si fissarono in quelli del soldato con una strana intensità.

«Qual è il tuo dovere?», chiese, bizzarramente.

«Sorvegliare la porta!» Il soldato parlò con voce spessa e meccanica: era rigido come una statua: gli occhi gli stavano diventando vitrei.

«Non è vero! Il tuo dovere è obbedirmi! Hai guardato nei miei occhi, e la tua anima non ti appartiene più. Apri quella porta!»

Rigido, con i lineamenti legnosi di una statua, il soldato si voltò, trasse dalla cintura una grande chiave, la girò nel massiccio catenaccio e spalancò la porta. Quindi rimase sull'attenti, con lo sguardo fisso in avanti, senza vedere.

Una donna scivolò fuori dalle ombre e toccò impaziente con la mano il braccio dell'ipnotizzatore.

«Digli di andarci a prendere dei cavalli, Khemsa,» sussurrò.

«Non ce n'è bisogno,» rispose il Rakhsha. Alzando leggermente il tono di voce si rivolse nuovamente alla guardia. «Non ho altri compiti per te. Ucciditi!»

Come in trance, il soldato piazzò l'estremità della lancia contro la base del muro e si pose la punta acuminata contro il corpo, appena sotto le costole. Poi, lentamente, stolidamente, si abbassò contro di essa con tutto il suo peso, così che la lancia gli trafisse il corpo e la punta fuoruscì in mezzo alle spalle. Scivolò lungo l'asta e giacque immobile, con la lancia che gli spuntava fuori in tutta la sua lunghezza, come un'orribile stelo cresciutogli dalla schiena.

La ragazza guardò morbosamente affascinata, finché Khemsa non le prese il braccio e la guidò attraverso la porta. Alcune torce illuminavano uno stretto passaggio fra il muro esterno e quello interno, più basso, nel quale a intervalli si aprivano delle porte ad arco. Un soldato percorreva il corridoio e, quando la porta si aprì, venne avanti tranquillo, talmente sicuro dell'impenetrabilità della prigione da non insospettirsi se non quando vide emergere dall'ingresso a volta Khemsa e la ragazza.

Allora fu troppo tardi. Il Rakhsha non perse tempo con l'ipnotismo, eppure la sua azione ebbe quasi del magico per la ragazza. La guardia abbassò minacciosamente la lancia, aprendo la bocca per urlare un allarme che avrebbe fatto sciamare i lancieri dai corpi di guardia alle due estremità del corridoio. Khemsa spinse via la lancia con la sinistra, come si allontana una pagliuzza, e la sua destra si mosse veloce come il lampo in un ampio arco: parve quasi carezzare gentilmente il collo del soldato. È la guardia cadde faccia a terra senza un suono, con la testa ciondolante sul collo spezzato.

Khemsa non lo degnò di un'occhiata: si diresse verso una delle porte ad arco e toccò col palmo il pesante chiavistello di bronzo. Con un rumore lacerante il portale si piegò verso l'interno. Seguendo Khemsa attraverso l'apertura, la ragazza notò che lo spesso legno di tek era tutto scheggiato, le sbarre di bronzo piegate e scardinate dagli alveoli, e i grandi cardini a pezzi. Un ariete di mille libbre manovrato da quaranta uomini non sarebbe riuscito a fare un lavoro migliore. Khemsa, ebbro di libertà e di potere, sembrava gloriarsi della sua forza, facendone sfoggio come un gigantesco fanciullo che eserciti i muscoli con inutile vigoria, solo per esultare glorioso delle sue prodezze.

La porta infranta conduceva in un piccolo cortile illuminato da una lanterna. Sul lato che fronteggiava la porta c'era un'ampia inferriata. Aggrappata alle sbarre era visibile una mano irsuta, e nell'oscurità brillavano degli occhi.

Kemsa rimase qualche attimo in silenzio, fissando l'ombra dalla quale occhi rilucenti gli restituivano lo sguardo con bruciante intensità. Poi si frugò nella veste: quando ritrasse la mano, scivolò libera per terra una piuma splendente di polvere scintillante. Istantaneamente, un lampo di luce verde illuminò il cortiletto. In un breve attimo, le forme di sette uomini, immobili dietro le sbarre, furono sottolineate nei vividi dettagli: uomini alti e irsuti, con gli abiti stracciati dei montanari. Non parlarono, ma nei loro occhi brillò la paura della morte e le loro mani pelose si afferrarono alle sbarre.

Il fuoco si spense, ma rimase una tremula luminescenza: una sfera di luce verdastra che pulsava e brillava debolmente sui lastroni di pietra ai piedi di Khemsa, attirando su di sé lo sguardo stupito dei capitribù. La sfera ondeggiò, si allungò, mutandosi infine in una verde spirale di fumo luminoso che si innalzò contorcendosi come un serpente fatto d'ombre, allargandosi poi e dissolvendosi in folate e volute rilucenti. Si ingrandì fino a diventare una nuvola che si mosse silenziosa sui lastroni, dritta verso l'inferriata.

Gli uomini osservarono l'avanzata con occhi dilatati, facendo vibrare le sbarre sotto la stretta disperata delle dita. Volti barbuti aprirono le labbra senza emettere alcun suono. La nuvola verde rotolò contro le sbarre, nascondendole alla vista. Come nebbia si riversò dentro l'inferriata avviluppando gli uomini che stavano rinchiusi. Dall'interno della nuvola provenne un boccheggiare strangolato, come di un uomo spinto improvvisamente con la testa sott'acqua. Nient'altro.

Khemsa toccò il braccio della ragazza, rimasta a bocca aperta, gli occhi spalancati. Meccanicamente, ella si voltò e si allontanò con lui, lanciandosi un'occhiata alle spalle. La nebbia si stava già rarefacendo; vicino alle sbarre vide un paio di piedi calzati di sandali, con le punte in alto ... ebbe una fugace impressione di sette sagome indistinte, immobili per terra.

«E ora saliremo su un cavallo più veloce di qualsiasi destriero mai allevato nelle stalle degli uomini,» stava dicendo Khemsa. «Saremo nell'Afghulistan prima dell'alba.»

 

4.

 

La Devi Yasmina non riuscì mai a ricordare con chiarezza i dettagli del rapimento. Era rimasta colpita dall'azione inattesa e violenta. Aveva avuto soltanto l'impressione di un turbinare di eventi... la stretta terribile di un braccio poderoso, gli occhi fiammeggianti del rapitore, il calore del suo respiro sulla pelle. Il salto attraverso la finestra sul parapetto, la corsa pazza per i tetti merlati, impietrita dalla paura di cadere, la discesa temeraria di una fune attaccata a un merlo...

Conan era sceso quasi di corsa, con la prigioniera ripiegata sulla spalla muscolosa: tutto questo era un garbuglio nella mente della Devi. Yasmina aveva un ricordo più vivido di Conan che correva rapidamente nell'ombra degli alberi portandola in braccio come una bambina, di Conan che volteggiava in sella a un fiero stalone bhalkano che si impennava e sbuffava. Poi c'era la sensazione di volare, e gli zoccoli dello stallone in corsa che traevano scintille dalla strada lastricata di pietre, allontanandosi.

Quando la ragazza riacquistò lucidità, le prime reazioni che ebbe furono di rabbia furibonda e di vergogna. Era sbalordita. I Signori dei Regni Dorati a sud dei Monti Himeliani erano considerati poco meno che divinità; e lei era la Devi della Vendhya! La paura fu sommersa dalla collera regale. Si mise a gridare furiosamente e a dimenarsi. Lei, Yasmina, portata sulla sella da un capo dei montanari, come una serva comprata al mercato!

Conan si limitò a tendere un po' di più i muscoli poderosi per impedirle di dimenarsi: per la prima volta nella sua vita, Yasmina sperimentò la coercizione di una forza fisica superiore: le braccia di Conan sembravano d'acciaio, attorno alle sue membra sottili. Il barbaro la guardò e sogghignò, facendo luccicare i denti alla luce delle stelle. Le redini erano abbandonate sulla criniera ondeggiante dello stallone, e ogni muscolo e ogni fibra del grande animale erano tesi mentre si lanciava per il sentiero disseminato di ciottoli. Ma Conan stava seduto comodamente, quasi con naturalezza, sulla sella, cavalcando come un centauro.

«Cane di un montanaro!», imprecò Yasmina ansando, tremante di vergogna e di rabbia, sapendo di trovarsi in una situazione senza vie di scampo. «Hai osato... hai osato! Ne risponderai con la vita! Dove mi porti?»

«Nei villaggi dell'Afghulistan,» rispose lui, lanciandosi un'occhiata dietro le spalle.

Dietro di loro, oltre il pendio che avevano oltreppassato, c'erano torce che si agitavano sui bastioni del forte. Conan intravide uno sprazzo di luce, che indicava che il grande portone si apriva: proruppe in una risata a piena gola, scrosciante come il vento delle montagne.

«Il Governatore ha mandato i cavalleggeri sulle nostre tracce,» disse ridendo. «Per Crom! Vuol dire che faremo allegramente la parte delle lepri. Che ne pensi, Devi? Pagherà un riscatto di sette vite per una Principessa kshatriyana?»

«Manderà un esercito per impiccare te e la tua progenie di diavoli,» promise lei con convinzione.

Conan rise di gusto e la sistemò in una posizione più confortevole fra le sue braccia. Ma Yasmina considerò la cosa come un nuovo insulto e rinnovò i vani tentativi di liberarsi, finché non si accorse che quegli sforzi riuscivano soltanto a farlo sorridere. Inoltre, i suoi abiti di seta leggera, svolazzanti al vento, si erano tutti vergognosamente aperti, a causa dei suoi movimenti. La Devi concluse che una sottomissione sprezzante si confaceva meglio alla sua dignità, e se ne restò tranquilla a covar bile.

Persino la rabbia che provava fu sommersa da un timore meravigliato quando imboccarono il Passo, che si abbassava come la bocca di un pozzo tenebroso fra le pareti ancor più tenebrose che si alzavano come contrafforti colossali a sbarrare loro la strada. Era come se un coltello gigantesco avesse intagliato il Passo dello Zhaibar fra muraglie di solida roccia. Da ogni parte pendii a strapiombo si innalzavano per centinaia di piedi e l'imboccatura del Passo era nera come l'odio.

Lo stesso Conan aveva difficoltà a vedere con una certa accuratezza, ma conosceva la strada, anche di notte. E sapendo che uomini armati cavalcavano dietro di lui sotto le stelle, non cercò di rallentare il galoppo dello stallone. Il gigantesco animale non dava ancora segni di stanchezza. Continuò a galoppare lungo la strada che seguiva il fondo della valle, superando a fatica un'erta, e percorrendo rapidamente una bassa cresta le cui sponde franose erano in agguato per gli incauti, finché non arrivò a un sentiero che seguiva la base della montagna di sinistra.

Nemmeno Conan avrebbe potuto, in quell'oscurità, accorgersi di un'imboscata tesa dalle tribù dello Zhaibar. E infatti, appena oltrepassata la nera imboccatura di una gola che sbucava nel passo, un giavellotto sibilò nell'aria e giunse a segno conficcandosi nella spalla dello stallone. Il grande animale nitrì di dolore; le zampe anteriori non lo sorressero più e cadde a testa in avanti, privo di vita. Ma Conan aveva intravisto la traiettoria del giavellotto e agì con la rapidità di una molla d'acciaio.

Balzò dalla groppa del cavallo che cadeva, reggendo la ragazza a mezz'aria per evitare che andasse a sbattere contro i massi. Ricadde subito in piedi come un gatto, spinse la Devi in una fenditura delle rocce e si girò a fronteggiare l'oscurità con il tulwar sguainato.

Yasmina, confusa dalla rapidità degli eventi, non sapeva con esattezza cosa stesse succedendo. Intravide una forma vaga avventarsi dall'oscurità e percepì il debole scalpiccio di piedi nudi sulle rocce e il fruscio di vesti sbrindellate che si agitavano in un turbinio frettoloso. Scorse il luccichio dell'acciaio, udì lo schiocco fulmineo di un colpo, la parata, il colpo di risposta e lo scricchiolio delle ossa quando il tulwar di Conan spaccò il cranio dell'avversario.

E già il cimmero era balzato indietro, acquattandosi al riparo delle rocce. Nella notte si udì il trepestio di uomini in movimento, poi una voce stentorea ruggì: «Cani che non siete altro! Che fate? Indietreggiate? Avanti, maledetti, prendetelo!»

Conan sobbalzò, aguzzò la vista nel buio e alzò la voce.

«Yar Afzal! Sei tu?»

Ci fu un'imprecazione di meraviglia e la voce rispose, cauta: «Conan? Sei tu, Conan?»

«Certo!», rise il cimmero. «Vieni avanti, vecchio sciacallo! Ho ammazzato uno dei tuoi uomini.»

Fra le rocce ci fu un tramestio, una luce brillò debolmente, poi apparve una fiaccola che venne oscillando verso Conan; e, man mano che si avvicinava, spuntavano dall'oscurità dei lineamenti barbuti e feroci. L'uomo alzò la fiaccola, spingendola in avanti, allugando il collo per osservare meglio le rocce che illuminava; nell'altra mano stringeva un lungo tulwar ricurvo. Conan fece un passo avanti, rinfoderando l'arma insanguinata, e l'altro ruggì un saluto.

«Sì, è proprio Conan! Venite fuori dalle rocce, cani. È Conan!»

Altri uomini si avvicinarono al cerchio ondeggiante di luce: uomini barbuti e selvaggi, vestiti di stracci, con occhi da lupo e lunghe lame in pugno. Non scorsero Yasmina, che era coperta dal corpo massiccio di Conan. Ma la ragazza, spiando da dietro il riparo, per la prima volta in quella notte conobbe la gelida morsa della paura. Quella gente assomigliava più a belve che a esseri umani.

«Cosa stai cacciando, di notte, nel Passo dello Zhaibar, Yar Afzal?», chiese Conan al corpulento capotribù, che sogghignò come un orco barbuto.

«Non si può mai sapere cosa verrà su per il Passo dopo il crepuscolo. Noi Wazuli siamo avvoltoi notturni. E tu cosa ci fai, Conan?»

«Ho un prigioniero,» rispose il cimmero. E, spostandosi di lato, mise in mostra la ragazza tremante, accoccolata contro la fenditura. Allungò un braccio e la trascinò fuori.

Yasmina aveva perso il portamento imperioso: guardava timidamente il cerchio di facce barbute che l'attorniava e si sentì rinfrancata da quel braccio robusto che la teneva stretta in segno di possesso. L'uomo avvicinò la torcia e la gente in cerchio trasse profondi respiri.

«È mia prigionera,» ammonì Conan, lanciando un'occhiata penetrante ai piedi dell'uomo che aveva ucciso, appena visibili nel cerchio di luce. «La stavo portando nell'Afghulistan, ma mi avete ammazzato il cavallo e ho già gli Kshatriyani alle calcagna.»

«Vieni con noi al villaggio,» suggerì Yar Afzal. «Abbiamo dei cavalli, nascosti nella gola. Non riusciranno mai a seguirci nel buio. Sono molto vicini, hai detto?»

«Così vicini che già sento il rumore degli zoccoli sulle pietre,» rispose Conan con aria sinistra.

Ci fu subito movimento: la torcia fu spenta e le sagome vestite di stracci si fusero nell'oscurità come fantasmi. Conan prese in braccio la Devi, che non oppose resistenza. Il suolo roccioso le feriva i piedi delicati attraverso le soffici pantofole, e Yasmina si sentiva minuscola e debole in quell'oscurità selvaggia e primordiale, tra quei picchi colossali ammantati di tenebra.

Sentendola rabbrividire nel vento che mugghiava giù per la gola, Conan strappò un mantello sbrindellato dalle spalle di un uomo e lo avvolse attorno alla ragazza. Le sibilò anche un avvertimento nell'orecchio, ordinandole di non fare rumore. Yasmina non udiva lo scalpitio lontano di zoccoli ferrati sulle rocce, che aveva allarmato l'udito acuto dei montanari; ma, in ogni caso, era troppo spaventata per disubbidire.

Non riusciva a vedere nulla, tranne la debole luce di qualche stella molto in alto ma, dall'addensarsi dell'oscurità, capì che avevano imboccato la gola. Attorno a lei c'era un andirivieni: il muoversi inquieto dei cavalli. Qualcuno mormorò una frase; Conan montò il cavallo dell'uomo che aveva ucciso e sollevò la ragazza, mettendosela davanti. Come fantasmi, tranne che per lo scalpitio degli zoccoli, la banda sgusciò nella gola tenebrosa, lasciando sul sentiero l'uomo e il cavallo morti, che furono trovati meno di mezz'ora dopo dai cavalleggeri della fortezza: essi riconobbero l'uomo per un wazuli, e ne trassero le debite conclusioni.

Yasmina, rannicchiata al calduccio fra le braccia del suo rapitore, cominciò a sonnecchiare senza volerlo. Il movimento del cavallo, anche se diseguale, a saliscendi, possedeva tuttavia un certo ritmo che, combinato con la stanchezza e l'esaurimento emotivo, induceva il sonno. Aveva perso completamente il senso del tempo e della direzione. La banda si muoveva in un'oscurità densa e soffice, nella quale la Devi di tanto in tanto notava vagamente muraglie gigantesche che si addossavano alle stelle, e ogni tanto percepiva profondità echeggianti sotto di lei, o sentiva il vento di altezze vertiginose che la sfiorava gelidamente. A poco a poco queste sensazioni svanirono in un dormiveglia nel quale lo scalpitio degli zoccoli e lo scricchiolio delle selle erano i suoni senza importanza di un sogno.

Avvertì vagamente il momento in cui il movimento cessò e qualcuno la depose per terra e la sostenne per qualche passo. Si sentì deporre su qualcosa di soffice e frusciante; una mano le mise sotto il capo qualcosa, forse un giaccone ripiegato, e il mantello nel quale era stata avvolta le fu accuratamente rimboccato addosso. Percepì la risata di Yar Afzal.

«Un bottino ricercato, Conan: la compagna adatta per un Capo degli Afghuli.»

«Non per me,» fu la risposta del cimmero. «Questa ragazza servirà a riscattare i miei sette capitribù, sia dannata l'anima loro.»

Questa fu l'ultima cosa che Yasmina sentì, prima di sprofondare in un sonno profondo senza sogni.

 

Mentre la Devi dormiva, uomini armati cavalcavano per le montagne tenebrose: il destino di imperi era appeso a un filo. Su e giù per le gole cupe e i burroni, quella notte risonarono gli zoccoli di cavalli al galoppo, e la luce delle stelle brillò su elmetti e lame ricurve; e gli uomini dall'aspetto di orchi che infestavano i picchi osservarono nelle tenebre, dagli strapiombi e dalle rocce, chiedendosi cosa stesse capitando.

Una banda di costoro, in sella a cavalli ossuti, si fermò all'estremità di una gola nera come la bocca di un pozzo, mentre passavano i cavalli al galoppo. Il loro capo, un uomo ben piantato, con l'elmetto e un mantello intessuto d'oro, alzò la mano in segno di ammonimento, finché i cavalieri non furono scomparsi. Quindi ridacchiò piano.

«Devono aver perso le tracce! Oppure devono avere scoperto che Conan ha già raggiunto i villaggi afghuli. Ci vorrà un mucchio di cavalieri per scacciarli tutti dalle loro tane. Prima dell'alba ci saranno squadroni interi che cavalcheranno su per il Passo.»

«Se c'è battaglia fra le montagne, ci sarà da saccheggiare,» mormorò una voce dietro di lui, nel dialetto degli Irakzai.

«Ci sarà anche il saccheggio,» rispose l'uomo con l'elmetto. «Ma prima è nostro compito raggiungere la valle di Gurashah e aspettare i cavalieri che giungeranno al galoppo da Secunderam, prima della luce del giorno.»

L'uomo allentò le redini e cavalcò giù per la gola; gli altri gli andarono dietro: trenta fantasmi sbrindellati sotto il chiarore delle stelle.

 

5.

 

Il sole era già alto quando Yasmina si destò. Non sobbalzò, né si guardò attorno stupita, chiedendosi dove si trovasse. Si destò con piena coscienza di quanto le era accaduto. Le sue membra flessuose erano intorpidite dalla lunga cavalcata e le sembrava di sentire ancora sulla pelle il contatto delle braccia muscolose che l'avevano portata fin lì.

Era sdraiata su una pelle di montone che ricopriva un pagliericcio di fogli sul pavimento di terra battuta. Un giaccone della stessa pelle era ripiegato sotto la sua testa; era avvolta in un mantello sdrucito. Si trovava in una grande stanza i cui muri erano fatti di pietre sovrapposte, rozze ma solide, tenute insieme da fango seccato al sole. Pesanti travi sostenevano un soffitto fatto allo stesso modo, nel quale c'era una botola raggiungibile mediante una scala. Nelle spesse pareti non c'erano finestre, ma solo feritoie. C'era una sola porta: un robusto battente di bronzo che doveva essere stato predato da qualche torre vendhyana di frontiera. Dalla parte opposta c'era un'ampia apertura nel muro, chiusa non da una porta, bensì da robuste sbarre di legno. Al di là di esse Yasmina vide un magnifico stallone nero che mangiucchiava del fieno. La costruzione era contemporaneamente fortezza, abitazione e stalla.

All'altra estremità della stanza, una ragazza con la camicia e i calzoni rigonfi delle montanare, accoccolata sui talloni vicino a un piccolo fuoco, cucinava fette di carne su una griglia di ferro posta su blocchi di pietra. C'era una fenditura fuligginosa nel muro a qualche piede dal soffitto, e un po' del fumo trovava una via d'uscita. Il resto fluttuava in volute azzurrine per la stanza.

La ragazza delle montagne sbirciò Yasmina da sopra la spalla, mettendo in mostra un volto sfrontato e grazioso, e continuò a cucinare. Alcune voci risuonarono all'esterno, poi la porta si spalancò con un calcio, e Conan entrò. Sembrava più gigantesco che mai, con la luce del mattino alle spalle; e Yasmina notò alcuni dettagli che le erano sfuggiti la notte prima. I suoi vestiti erano puliti e in ordine. L'ampia fascia di Bakhariot che reggeva il tulwar nel fodero ornato di pietre preziose, non avrebbe sfigurato nell'abbigliamento di un Principe, e da sotto la camicia traspariva lo scintillio di una pregevole maglia d'acciaio turaniana.

«Conan, la tua prigioniera si è svegliata,» disse la ragazza wazuli; il cimmero grugni, avanzò verso il fuoco, e ramazzò le fette di montone in un piatto di pietra.

La ragazza accoccolata per terra gli ridacchiò dietro in una specie di allusione salace; Conan fece una smorfia da lupo e, uncinandole la gamba con un piede, la rovesciò per terra. La ragazza parve divertirsi notevolmente a quello scherzetto piuttosto pesante, ma Conan non le prestò più attenzione. Tirata fuori da qualche parte una grossa forma di pane e una brocca di rame colma di vino, portò il tutto a Yasmina, che si era sollevata dal pagliericcio e lo guardava con aria dubbiosa.

«Non è cibo abbastanza delicato per una Devi, ragazza, ma è quanto abbiamo di meglio,» grugnì. «Ti riempirà lo stomaco, se non altro.»

Posò il piatto per terra, e Yasmina scoprì improvvisamente di avere una fame tremenda. Senza fare commenti, si sedette a gambe incrociate per terra, mettendosi il piatto in grembo, e cominciò a mangiare con le mani, che erano le uniche posate a disposizione. Dopotutto, l'adattabilità è una delle prerogative della vera aristocrazia. Conan rimase a guardarla dall'alto in basso, con i pollici nella cinta. Lui non si sedeva mai a gambe incrociate alla maniera orientale.

«Dove siamo?», chiese la Devi all'improvviso.

«Nella dimora di Yar Afzal, Capo dei Wazuli di Khurum. L'Afghulistan si trova molte miglia a occidente. Staremo nascosti qui per un po'. Gli Ashatriyani stanno battendo le montagne perché parecchie delle loro squadre sono già state fatte a pezzi dalle tribù.»

«Che cosa conti di fare?»

«Tenerti in ostaggio finché Chunder Shan sarà disposto a scambiarti con i miei sette ladroni di vacche,» brontolò lui. «Le donne wazuli stanno estraendo inchiostro dalle foglie di shoki, così tra poco potrai scrivere una lettera al Governatore.»

Un tocco di collera imperiosa la scosse, al pensiero di come i suoi piano fossero andati in fumo, lasciandola prigioniera dell'uomo che voleva avere in pugno. Buttò via il piatto con i resti del pasto e balzò in piedi, piena d'ira.

«Non scriverò nessuna lettera! Se non mi riporti indietro, impiccheranno i tuoi sette uomini, e migliaia d'altri ancora!»

La ragazza wazuli rise con scherno e Conan aggrottò le ciglia; poi la porta si spalancò lasciando entrare Yar Afzal. Il Capo wazuli era alto come Conan, e anche più massiccio, ma sembrava grasso e lento di fronte alla compattezza scattante del cimmero. Si cincischiò la barba rossiccia e guardò in modo significativo la ragazza wazuli, che si alzò e filò via in fretta. Allora Yar Afzal si rivolse all'ospite.

«Quella maledetta gentaglia mormora,» disse. «Vorrebbe che io ti uccidessi e mi impadronissi della ragazza per ottenerne un riscatto. Dicono che tutti possono giudicare dai suoi vestiti che è di nobile nascita. Si chiedono perché i cani afghuli debbano trarre vantaggio da lei, quando è la mia gente che si assume i rischi di sorvegliarla.»

«Prestami il tuo cavallo. La prendo con me e me ne vado.»

«Puah',» sbottò Yar Afzal. «Credi che non sappia come trattarli? Gliela faccio fare sotto, se si azzardano ad attraversarmi la strada! Non ti possono soffrire, come qualsiasi altro forestiero, ma tu una volta mi hai salvato la vita e io non lo dimentico. Vieni fuori, comunque. È appena tornato un esploratore.»

Conan si aggiustò la cintura e seguì il capo. Si chiusero la porta alle spalle e Yasmina spiò attraverso una feritoia che le permetteva di osservare lo spiazzo di terra battuta davanti alla casa. Poteva vedere, sul lato più lontano dello spiazzo, un grappolo di catapecchie di fango e pietra, i bambini che giocavano fra le rocce, e le donne delle montagne, dritte e slanciate, intente alle loro faccende.

Proprio davanti all'abitazione del capo, gli uomini irsuti e sbrindellati stavano accoccolati, in cerchio, fronteggiando la porta. Conan e Yar Afzal rimasero a qualche passo dalla soglia; fra loro e il cerchio di guerrieri un altro uomo stava seduto sui talloni. Costui si rivolse al capo nell'aspra lingua dei Wazuli, che Yasmina aveva difficoltà a comprendere, anche se le erano state insegnate, come parte della regale educazione, le lingue dell'Iranistan e quelle affini del Ghulistan.

«Ho parlato con un dagozai che ha visto i cavalieri la notte scorsa,» disse l'esploratore. «Era nascosto vicino a loro, quando giunsero nel posto in cui abbiamo teso l'imboscata a Conan. È riuscito a sentire quel che dicevano. Chunder Shan era con loro. Hanno trovato il cavallo morto e uno degli uomini l'ha riconosciuto per quello di Conan. Poi hanno trovato l'uomo ucciso da Conan e l'hanno riconosciuto per un wazuli. Hanno concluso che Conan era stato ucciso e la ragazza catturata da wazuli; così hanno abbandonato il proposito di continuare verso l'Afghulistan. Ma non sanno da quale villaggio il morto provenisse, e noi non abbiamo lasciato tracce che uno kshatriyano possa seguire.

«Così hanno cavalcato fino al villaggio wazuli più vicino, che è il villaggio di Jugra, l'hanno incendiato, e hanno ucciso la maggior parte della gente. Ma gli uomini di Khojur sono piombati loro addosso nel buio e ne hanno ucciso una gran parte e ferito il Governatore. Così, i superstiti, si sono ritirati con i rinforzi al primo sorgere del sole, e per tutta la mattina ci sono stati combattimenti e scaramucce fra le montagne. Si dice che stiano raccogliendo un grande esercito per spazzare le montagne attorno allo Zhaibar. Le tribù affilano i tulwar e tendono imboscate in ogni Passo da qui alla valle di Gurashah. Inoltre, Kerim Scià è tornato sulle montagne.»

Un grugnito percorse il cerchio; Yasmina si avvicinò di più alla feritoia, sentendo il nome dell'uomo che le aveva fatto nascere dei sospetti.

«Dove andava?», chiese Yar Afzal.

«Il dagozai non lo sapeva. Con Kerim Scià c'erano trenta Irakzai dei villaggi più bassi; si sono inoltrati nelle montagne e sono scomparsi.»

«Quegli Irakzai sono sciacalli che seguono il leone per i rimasugli,» brontolò Yar Afzal. «Hanno leccato le monete che Kerim Scià ha sparso fra le tribù di frontiera per comprare uomini come si comprano cavalli. Non mi piace, anche se, essendo iranistano, è della nostra stessa razza.»

«Non è nemmeno questo,» intervenne Conan. «Lo conosco da tempo. È un hyrkano, una spia di Yezdigerd. Se gli metto le mani addosso, appendo la sua pelle a un tamarisco.»

«E gli Kshatriyani?», rumoreggiarono gli uomini in cerchio. «Dobbiamo starcene accovacciati sui talloni finché non ci daranno fuoco? Alla fine scopriranno in quale villaggio è prigioniera la donna. Gli Zhaibariani ci odiano e aiuteranno gli Kashatriyani a darci la caccia.»

«Lasciateli venire,» brontolò Yar Afzal. «Possiamo tenere la gola contro un esercito.»

Uno degli uomini balzò in piedi e agitò il pugno davanti a Conan.

«Siamo noi che dobbiamo correre i rischi, mentre lui si piglia la ricompensa?», ululò. «Siamo noi che dobbiamo batterci al suo posto?»

Con un balzo Conan lo raggiunse e si piegò leggermente per fissarlo bene nella faccia irsuta. Il cimmero non aveva estratto il tulwar, ma la sinistra era corsa al fodero, facendo sporgere l'elsa, in modo da suggerirne la possibilità.

«Non ho mai chiesto a nessuno di combattere al mio posto» sibilò. «Sguaina il coltello, se ne hai il coraggio, cucciolo guaiolante!»

Il wazuli balzò indietro soffiando come un gatto.

«Osa solo toccarmi, e cinquanta uomini ti faranno a pezzi,» strillò.

«Cosa?», ruggì Yar Afzal, imporporandosi di collera. «Sei diventato il Capo di Khurum? I Wazuli prendono ordini da Yar Afzal o da un bastardo morto di fame?»

L'uomo si inchinò servilmente davanti al suo capo e Yar Afzal avanzò verso di lui, lo prese per la gola e lo strinse finché il volto dell'altro non divenne quasi nerastro; poi lo scagliò selvaggiamente per terra e gli fu sopra sol tulwar in pugno.

«C'è qualcun altro che mette in dubbio la mia autorità?», ruggì, e i guerrieri abbassarono gli occhi quando lo sguardo bellicoso del capo li passò in rassegna. Yar Afzal grugnì con disprezzo, rinfoderando l'arma con un gesto che era tutto un insulto. Quindi prese a calci l'agitatore steso a terra con una vendicatività concentrata che strappò ululati alla vittima.

«Vai in fondo alla valle e chiedi alle sentinelle se hanno visto qualcosa», ordinò. L'uomo si allontanò tremando di paura e digrignando i denti dalla rabbia.

Yar Afzal si sedette maestosamente su una roccia, borbottando tra la barba. Conan rimase accanto a lui, i pollici nella cintura, le gambe allargate, guardando con gli occhi socchiusi i guerrieri riuniti. Essi gli ricambiarono lo sguardo con astio, non osando sfidare la collera di Yar Afzal, ma odiando il forestiero come solo un montanaro può odiare.

«E ora statemi a sentire, figli di cani innominabili. Ecco il piano che Conna e io abbiamo elaborato per mettere nel sacco gli Kshatriyani...», l'eco della voce possente di Yar Afzal seguì lo sconfitto che si allontanava dall'assemblea.

L'uomo rasentò il grappolo di casupole, dove le donne che avevano assistito alla sua sconfitta gli risero dietro, indirizzandogli frasi pungenti, e si affrettò per il sentiero che serpeggiava fra speroni di roccia e massi verso l'imboccatura della valle.

Poi, appena superata la prima curva che lo nascondeva alla vista del villaggio, l'uomo si fermò di scatto, restando scioccamente a bocca aperta. Non avrebbe mai creduto possibile che un forestiero potesse entrare nella valle di Khurum senza essere scoperto dagli occhi acutissimi delle sentinelle poste sulle alture; eppure un uomo se ne stava seduto a gambe incrociate su una bassa cresta vicino al sentiero... un uomo con una veste di pelo di cammello e un turbante verde.

La bocca del wazuli si spalancò per gridare e la mano gli scivolò verso l'elsa del tulwar. Ma, in quel momento, i suoi occhi incontrarono quelli dello straniero; il grido gli morì in gola, le dita rimasero inerti. Restò fermo come una statua, con gli occhi sbarrati e vacui.

Per qualche istante la scena non presentò cambiamenti; poi, l'uomo sulla cresta tracciò con l'indice un simbolo criptico nella polvere della roccia. Il wazuli non gli vide posare niente entro lo spazio racchiuso dal simbolo, eppure vi comparve bruscamente qualcosa che luccicava... una pallina nera e rilucente, che sembrava giaietto levigato. L'uomo dal turbante verde la raccolse e la lanciò al wazuli, che meccanicamente l'afferrò al volo.

«Portala a Yar Afzal,» disse lo straniero, e il wazuli si girò come un burattino e tornò indietro per il sentiero, tenendo la pallina di giaietto nel palmo della mano. Non girò nemmeno più la testa ai nuovi scherni delle donne, quando passò vicino alle casupole. Non parve udire.

L'uomo sulla cresta lo seguì con lo sguardo, con un sorriso indecifrabile sulle labbra. Una ragazza sporse la testa dall'orlo del costone e lo guardò con ammirazione e anche con un pizzico di paura che non c'era stato la notte prima.

«Perché l'hai fatto?», chiese.

L'uomo le passò la mano fra i riccioli neri, carezzandoli.

«Sei ancora scombussolata dal volo sul cavallo di nuvola, per dubitare della mia saggezza?», rise. «Finché Yar Afzal sarà vivo, Conan potrà starsene nascosto al sicuro fra i guerrieri wazuli. Sono in parecchi, e hanno armi affilate. Quello che ho fatto sarà più sicuro, perfino per me, che cercare di ucciderlo e strappargli la Devi in mezzo ai guerrieri. Non è necessario essere Maghi per predire cosa faranno i Wazuli e cosa farà Conan, quando la mia vittima porgerà il globo di Yezud al capo di Khurum.»

 

Con la schiena rivolta alla casa, Yar Afzal si fermò in mezzo a una frase, sorpreso e arrabbiato nel vedere l'uomo che aveva mandato all'imbocco della valle farsi largo in mezzo ai guerriri.

«Ti avevo ordinato di andare dalle sentinelle!», sbraitò il capotribù. «Non hai avuto il tempo di andare e tornare.»

L'altro non rispose; rimase fermo come una marionetta, guardando stupidamente il capo in viso, con la mano tesa che reggeva la pallina di giaietto. Conan, guardando da sopra la spalla di Yar Afzal, mormorò qualcosa e allungò la mano per toccare il braccio del capo, ma in quel mentre Yar Afzal, al colmo della rabbia, colpì violentemente l'uomo col pugno chiuso facendolo stramazzare come un bue al macello.

Cadendo, l'uomo lasciò andare la pallina di giaietto, che rotolò ai piedi di Yar Afzal; questi, come se la vedesse solo allora, si chinò a raccoglierla. Gli uomini, guardando perplessi il loro compagno privo di sensi, videro il capo chinarsi, ma non videro cosa aveva raccolto da terra.

Yar Afzal si raddrizzò, diede un'occhiata alla sfera di giaietto, e iniziò il gesto di riporla nella cintura.

«Portate quel pazzo alla sua capanna,» grugnì. «Ha l'aspetto di un mangiatore di loto. Mi guardava con gli occhi vacui... Ahi!»

Nella mano che aveva portato alla cintura avvertì improvvisamente un movimento dove movimento non avrebbe dovuto esserci. La voce gli morì, e rimase impietrito a guardare nel nulla. Dentro la mano racchiusa a pugno avvertì il fremito del cambiamento, del movimento, della vita. Non stringeva più fra le dita una sferetta levigata e luccicante. E aveva paura di guardare; aveva la lingua come appiccicata al palato e non poteva aprire la mano. I guerrieri, stupiti, videro gli occhi di Yar Afzal gonfiarsi, il colore svanirgli dalle gote. Poi, d'improvviso, un urlo di agonia proruppe dalle labbra barbute; l'uomo ondeggiò e cadde come colpito dal fulmine, con la destra tesa in avanti. Giacque faccia a terra, e fuori dalle dita socchiuse strisciò un ragno... un osceno mostriciattolo nero dalle gambe pelose, il cui corpo riluceva come giaietto. Gli uomini urlarono e si ritrassero di scatto, e l'animale si precipitò in una crepa delle rocce e svanì.

I guerrieri balzarono in piedi, con gli occhi iniettati di sangue e, al di sopra delle loro grida, si alzò una voce, una lontana voce autoritaria che veniva da non si sa dove. In seguito nessuno di quegli uomini... di quelli rimasti vivi... ammise di aver gridato, ma tutti udirono l'ordine.

«Yar Afzal è morto! A morte il forestiero!»

Quell'urlo concentrò il turbinio dei loro sentimenti su un unico punto. Dubbio, meraviglia e paura svanirono sotto l'ondata tumultuosa di bramosia di sangue. Un urlo feroce squarciò i cieli mentre gli uomini della tribù rispondevano istantaneamente al suggerimento. Si precipitarono a testa bassa attraverso lo spiazzo, con i mantelli svolazzanti, gli occhi di fiamma, i coltellacci alzati.

L'azione di Conan fu veloce come la loro. Sentendo quella voce, il cimmero balzò in direzione della porta della casupola. Ma i Wazuli gli erano più vicini di quanto non lo fosse la porta, e Conan, con un piede sulla soglia, dovette voltarsi per parare il fendente di un tulwar lungo un braccio. Spaccò in due il cranio dell'assalitore... evitò un altro coltello e sbudellò l'uomo che aveva menato il colpo... ne atterrò uno col pugno sinistro e scalciò il ventre di un altro... e spinse possentemente con le spalle contro la porta chiusa. Lame taglienti intaccarono pezzetti di stipite attorno alle sue orecchie, ma la porta si spalancò sotto la spallata, ed egli si precipitò barcollando dentro la stanza.

Un wazuli barbuto, slanciandosi in un affondo con tutta la sua furia, superò Conan che balzava indietro, e si tuffò a capofitto attraverso il vano della porta. Conan si curvò, lo afferrò per i vestiti, gli fece fare un volo in mezzo alla stanza e sbatté la porta in faccia agli uomini che gli si stavano ammassando attorno. L'impatto fu seguito da un rumore d'ossa rotte; l'istante successivo Conan aveva già messo la spranga a posto e si voltò con rapidità disperata per fronteggiare l'uomo che si era rialzato di scatto e che si stava precipitando all'assalto come un pazzo.

Yasmina si acquattò in un angolo, con gli occhi spalancati dall'orrore, mentre i due uomini combattevano avanti e indietro per la stanza, rischiando a volte di calpestarla. Il balenio e il clangore delle lame riempivano la casa; fuori la folla rumoreggiava come un branco di lupi, colpendo la porta di bronzo con i lunghi tulwar e scagliandole contro pesanti massi, con un fracasso assordante.

Qualcuno trovò un tronco, e la porta cominciò a vibrare sotto l'assalto fermidabile. Yasmina si strinse le orecchie fra le mani, fissando la scena con occhi sbarrati. Dentro c'erano furia e violenza, fuori pazzia da cataclisma. Il cavallo dentro il recinto nitriva e si impennava, battendo le pareti con le zampe posteriori. Si girò e si lanciò con gli zoccoli contro le sbarre proprio mentre il wazuli, indietreggiando sotto i colpi micidiali di Conan, andava a sbatterci contro. La spina dorsale dell'uomo si spezzò in tre punti come un ramo marcio, e il wazuli fu scagliato a testa avanti contro il cimmero, trascinandolo con sé, cosicché tutt'e due caddero rumorosamente lunghi e distesi sul pavimento di terra battuta.

Yasmina lanciò un urlo e si precipitò verso di loro; ai suoi occhi stupiti parve che tutt'e due fossero rimasti uccisi. Li raggiunse proprio mentre Conan si scrollava di dosso il cadavere dell'altro e si alzava. La ragazza gli prese il braccio, tremando dalla testa ai piedi.

«Oh, sei vivo! Pensavo... pensavo che fossi morto!»

Conan lanciò una rapida occhiata al volto pallido, agli occhi neri sbarrati rivolti verso di lui.

«Perché tremi?», le chiese. «Perché dovresti preoccuparti se sono vivo o morto?»

La ragazza ritrovò una traccia dell'antico orgoglio e si scostò da lui, in un mal riuscito tentativo di impersonare di nuovo la Devi.

«Sei preferibile a quei lupi che ululano là fuori,» rispose, facendo un gesto verso la porta, la cui soglia di pietra cominciava ad andare in pezzi.

«Non terrà a lungo,» mormorò Conan, voltandosi e dirigendosi veloce verso il recinto dello stallone.

Yasmina si strinse le mani e trattenne il fiato vedendolo scostare le sbarre scheggiate ed entrare nel recinto della bestia imbizzarrita. Lo stallone si impennò nitrendo paurosamente, gli zoccoli alzati, gli occhi e i denti che lampeggiavano, le orecchie piegate all'indietro, ma Conan lo evitò con un balzo, gli afferrò la criniera con una forza quasi incredibile, e costrinse la bestia a piegarsi sulle zampe anteriori. Lo stallone soffiava e tremava, ma rimase fermo mentre il cimmero gli metteva le briglie e la sella lavorata in oro con le ampie staffe d'argento.

Facendo girare la bestia nel recinto, Conan chiamò vivacemente Yasmina; la ragazza gli si avvicinò, camminando nervosamente di sbieco oltre le zampe posteriori dello stallone. Il cimmero si mise ad armeggiare contro la parete di pietra.

«Qui nel muro c'è una porta segreta,» disse in fretta. «Nemmeno i Wazuli la conoscono. Me l'ha mostrata Yar Afzal, una volta che era ubriaco. Dà nell'imboccatura del burrone dietro la casa. Ecco qua!»

Spingendo una sporgenza che sembrava naturale, fece ruotare su cardini ben oliati un'intera sezione della parete. Fuori Yasmina vide una stretta gola che si apriva su un ripido pendio roccioso, a pochi piedi dal muro posteriore della casa. Conan balzò in sella e alzò la Devi mettendola davanti a sé. Dietro di loro la porta gemette come una cosa viva e crollò con fracasso verso l'interno; un urlo risuonò fino al soffitto quando il vano si riempì istantaneamente di facce barbute e di pugni irsuti che brandivano i tulwar. Allora lo stallone si slanciò attraverso il muro come un dardo scagliato da una balestra e si inoltrò al galoppo nella gola, ventre a terra, con la schiuma che gli colava lungo il morso.

La mossa colse completamente di sorpresa i Wazuli. E fu anche una sorpresa per i due che si muovevano furtivamente nella gola. Fu una cosa talmente rapida... il possente cavallo alla carica con la forza di un uragano... che un uomo col turbante verde non riuscì a scansare finendo sotto gli zoccoli scalpitanti. Una ragazza urlò. Conan ne ebbe una fuggevole visione mentre la sorpassava al galoppo con rumore di tuono: una slanciata ragazza bruna in calzoni di seta e reggiseno ingioiellato, appiattita contro la parete della gola. Poi, cavallo e cavalieri sparirono nella gola come schiuma spazzata via dalla tempesta, e gli uomini che vennero correndo a precipizio dietro di loro attraverso il muro si imbatterono in qualcosa che tramutò le loro grida bramose di sangue in acute urla di paura e di morte.

 

6.

 

«È ora?», chiese Yasmina, aggrappata al suo rapitore, cercando di tenersi eretta sull'arco ondeggiante della sella. Si rendeva conto con un'ombra di vergogna che non riusciva a trovare spiacevole il contatto dei muscoli di lui sotto le dita.

«Andremo nell'Afghulistan,» rispose Conan. «È una strada piena di pericoli, ma lo stallone ci porterà facilmente, a meno di capitare addosso ai tuoi amici o alle tribù nemiche della mia. Ora che Yar Afzal è morto, quei maledetti Wazuli ci staranno alle costole. Sono sorpreso di non vederli ancora alle nostre spalle.»

«Chi era l'uomo che hai calpestato?»

«Non lo so. Non l'ho mai visto prima. E cosa diavolo stesse facendo laggiù, supera le mie capacità d'immaginazione. C'era anche una ragazza, con lui.»

«Sì.» Un'ombra le velò lo sguardo. «È una cosa che non capisco. Era Gitara, la mia cameriera. Credi che stesse venendo in mio aiuto? Quell'uomo era un amico? Se è così, i Wazuli li avranno catturati entrambi.»

«Beh, non c'è nulla che possiamo fare. Se torniamo indietro, quelli ci scorticano vivi. Non capisco come una ragazza come quella si sia potuta inoltrare tanto fra le montagne, accompagnata solo da un uomo... uno studioso a giudicare dal vestito. C'è qualcosa di maledettamente strano in tutto questo. L'uomo che Yar Afzal ha percosso e mandato via... si muoveva come un sonnambulo. Ho visto i Sacerdoti di Zamora officiare le loro abominevoli cerimonie nei Templi proibiti, e le loro vittime avevano lo stesso aspetto di quell'uomo. I Sacerdoti le guardavano negli occhi e mormoravano incantesimi, e quelle diventavano come morti che camminano, con gli occhi vitrei, e facevano quanto veniva loro ordinato.

«E ho anche visto ciò che quell'uomo teneva in mano, e che Yar Afzal ha raccolto. Sembrava una grossa sfera di giaietto, come quelle che le Vergini Sacre del Tempio di Yezud portano addosso quando danzano davanti al ragno di pietra nera che è il loro Dio. Yar Afzal l'ha presa in mano, e non ha più raccolto altro. Eppure, quando è crollato privo di vita, un ragno, simile al Dio di Yezud, ma più piccolo, gli è scivolato via dalle dita. E poi, quando i Wazuli sono rimasti incerti sul da farsi, una voce ha gridato loro di uccidermi, e io so che quella voce non proveniva da nessuno dei guerrieri, e neanche dalle donne che osservavano dalle catapecchie. Era una voce che sembrava venire dall'alto.»

Yasmina non rispose. Lanciò un'occhiata ai profili immobili delle montagne tutt'attorno e rabbrividì. Si sentiva rimpicciolita dalla loro desolata brutalità. Era un paese spoglio, tetro, dove tutto poteva succedere. Fu sopraffatta dalle leggende senza età cne facevano tremare di paura il popolo delle calde e lussureggianti pianure meridionali.

Il sole, alto nel cielo, batteva implacabilmente caldo, eppure il vento che soffiava a folate irregolari sembrava avere spazzato i pendii di ghiaccio. Una volta udì in alto uno strano fruscio, che non era quello del vento, e dal modo in cui Conan alzò lo sguardo capì che non era un suono familiare nemmeno a lui. Le parve che una striscia del freddo cielo azzurrino fosse divenuta torbida per un attimo, come se un oggetto completamente invisibile si fosse frapposto fra lei e la volta celeste, ma non poté esserne sicura. Nessuno dei due fece commenti, ma Conan liberò il tulwar nel fodero.

Stavano seguendo un sentiero appena accennato, che sprofondava in burroni così profondi che il sole non ne raggiungeva mai il fondo, per poi risalire lungo erti pendii argillosi che ad ogni momento minacciavano di smottare, e seguire creste affilate come coltelli fiancheggiate da abissi pieni di nebbie azzurrognole e d'echi.

Il sole aveva oltrepassato lo zenit quando incrociarono uno stretto sentiero serpeggiante fra le rocce. Conan fece compiere una deviazione al cavallo e seguì la pista verso sud, in una direzione quasi ad angolo retto con la precedente.

«A un'estremità di questo sentiero c'è un villaggio galzai,» spiegò. «Le loro donne fanno questa strada per andare a prendere acqua da un pozzo. Tu hai bisogno di altri vestiti.»

Dando un'occhiata al suo abbigliamento di mussola, Yasmina fu d'accordo con lui. Le pantofole intessute d'oro erano a pezzi, la veste e la sottoveste di seta, ridotte a brandelli, quasi non stavano insieme. Quegli abiti fatti per le strade di Peshkhauri si confacevano ben poco alle rocce impervie dei Monti Himeliani.

Giunto a una curva del sentiero, Conan smontò, aiutò Yasmina a scendere da cavallo, e rimase in attesa. Poco dopo fece un cenno col capo, anche se la ragazza non aveva sentito nulla.

«C'è una donna che percorre il sentiero,» constatò. Presa da un panico improvviso, Yasmina gli afferrò il braccio.

«Non vorrai... non vorrai ucciderla?»

«Di solito non uccido le donne,» borbottò lui. «Anche se alcune di queste montanare sono vere e proprie lupe. No...,» e sogghignò come a una barzelletta, «per Crom! pagherò per i suoi vestiti! Vanno bene queste?» Tirò fuori una manciata di monete d'oro, scelse la più grossa e ripose le altre. Yasmina annuì con sollievo. Forse per gli uomini era naturale uccidere e morire; ma le veniva la pelle d'oca al pensiero di dover assistere all'assassinio di una donna.

Poco dopo, una donna comparve alla svolta del sentiero: era una ragazza galzai alta e slanciata, diritta come un alberello, che reggeva una grande zucca vuota. Si fermò di colpo vedendoli, e la zucca le cadde a terra. Fece il gesto di scappar via di corsa, ma si rese conto che Conan le era troppo vicino per permetterle di fuggire, così se ne stette ferma, fissandoli con un'espressione di paura mista a curiosità.

Conan le mostrò la moneta d'oro.

«Se darai a questa donna i tuoi vestiti,» disse, «ti darò questa moneta.»

La risposta fu immediata. La ragazza ebbe un largo sorriso sorpreso e compiaciuto, e, con lo sprezzo della montanara per le convenzioni puritane, si tolse prontamente il vestito ricamato senza maniche, lasciò scivolare per terra gli ampi calzoni e se ne liberò facendo un passo avanti, quindi si tolse la camicetta dalle maniche larghe, e scalciò via i sandali. Fece un unico fagotto di tutto e lo porse a Conan, che lo passò alla stupita Yasmina.

«Vai dietro quel masso e mettiteli addosso,» le suggerì, dimostrando ancora una volta di non essere un montanaro. «Fa' un fagotto dei tuoi vestiti e portameli quando vieni fuori.»

«Il denaro!», reclamò la ragazza, tendendo la mano con impazienza. «L'oro che mi hai promesso!»

Conan le lanciò la moneta e la montanara la raccolse, la saggiò con i denti, la nascose fra i capelli, si chinò a raccogliere la zucca e si avviò per il sentiero: era altrettanto priva d'imbarazzo quanto lo era di abiti. Conan attese con un po' d'impazienza che la Devi, per la prima volta nella sua vita, si vestisse da sola.

Quando spuntò fuori da dietro la roccia, il cimmero ebbe un'esclamazione di sorpresa, e Yasmina avvertì dentro di sé uno strano flusso di emozioni notando la palese ammirazione che divampava nei suoi fieri occhi azzurri. Provò vergogna, imbarazzo, e tuttavia uno stimolo di vanità che non aveva mai provato prima, è uno strano formicolio quando incrociò il suo sguardo. Lui le posò una mano possente sulla spalla e la girò verso di sé, guardandola avidamente da tutti i lati.

«Per Crom!», disse. «Dentro quei vestiti fumosi da cerimonia eri isolata, glaciale e lontana come una stella! Ora sei una donna fatta di carne e di sangue! Sei andata dietro quel masso, ed eri la Devi di Vendhya; ne sei tornata fuori, e sei una ragazza delle montagne... anche se mille volte più bella di qualsiasi donna dello Zhaibar! Eri una Dea... e ora sei una donna!»

Le mollò una sonora pacca sul fondo della schiena e Yasmina, rendendosi conto che il gesto era solo una dimostrazione di ammirazione, non si sentì offesa. Era proprio come se il cambio di vestiti avesse portato un mutamento nella sua personalità. I sentimenti e le sensazioni che aveva represso risalivano ora a galla, come se le vesti regali che si era tolta di dosso fossero state remore e inibizioni materializzate.

Ma Conan, pur continuando ad ammirarla, non dimenticava che tutt'attorno si celava il pericolo. Tanto più si allontanavano dalla regione dello Zhaibar, tanto meno correva il rischio di incontrare le pattuglie kshatriyane. D'altra parte, durante la fuga, era sempre rimasto con l'orecchio attento a rumori che potessero rivelare la presenza dei Wazuli di Khurum assetati di vendetta.

Conan alzò di peso Yasmina e la sistemò sulla sella; poi montò in groppa allo stallone e lo spinse verso occidente. Costeggiando un burrone, buttò via il fagotto di vestiti datogli dalla Devi, lasciandolo cadere nelle profondità di una voragine che s'inabissava per un migliaio di piedi.

«Perché li hai buttati via?», chiese Yasmina. «Perché non li hai dati alla ragazza?»

«I cavalleggeri di Peshkhauri stanno passando al setaccio queste montagne,» le rispose. «I montanari tenderanno imboscate e li assaliranno ad ogni occasione, e loro per vendetta distruggeranno ogni villaggio di cui riusciranno a impadronirsi. Possono dirigersi a occidente in qualsiasi momento. E se trovassero una ragazza con addosso i tuoi vestiti, la torturerebbero fino a farla parlare. E lei potrebbe metterli sulle mie tracce.»

«A proposito della ragazza, cosa farà ora?»

«Tornerà al villaggio e dirà che uno straniero l'ha assalita. Li sguinzaglierà dietro di noi, d'accordo. Ma, per prima cosa, dovrà andare al pozzo e riportare l'acqua; se osasse tornare senza, le strapperebbero la pelle a nerbate. Perciò abbiamo un bel po' di vantaggio. Non ci prenderanno mai. Al calar del sole attraverseremo la frontiera dell'Afghulistan.»

«Non ci sono sentieri né segni di abitazioni umane, qui attorno,» commentò lei. «La regione sembra straordinariamente deserta, persino per i Monti Himeliani. Non abbiamo più visto una pista da quando abbiamo lasciato quella dove abbiamo incontrato la ragazza galzai.»

Per tutta risposta Conan indicò col dito verso nordovest, dove si scorgeva un picco oltre uno stretto squarcio negli strapiombi rocciosi.

«Lo Yimsha», grugnì. «Le tribù costruiscono i villaggi il più lontano possibile da quella montagna.»

Yasmina drizzò subito le orecchie.

«Lo Yimsha!», mormorò. «La montagna dei Veggenti Neri!»

«Così dicono. Non mi sono mai avvicinato ad essa tanto come ora. Ho deviato verso settentrione per evitare qualsiasi pattuglia kshatriyana che stesse perlustrando queste montagne. La pista normale che porta da Khurum all'Afghulistan si trova molto più a sud. Questa invece è una pista molto antica, e viene usata di rado.»

Yasmina osservò attentamente il picco lontano. Si conficcò le unghie nel palmo delle mani ben modellate.

«Quanto ci vorrà per raggiungere lo Yimsha da qui?»

«Tutto il resto della giornata e tutta la notte,» risposte il cimmero, e sogghignò. «Vuoi andare fin là? Per Crom! Non è il posto adatto a un normale essere umano, a quanto dice la gente delle montagne.»

«Perché le tribù non si riuniscono tutte insieme e non distruggono i Demoni che abitano lassù?»

«Spazzare via gli Stregoni con le spade? E poi, non si occupano mai delle faccende dei comuni mortali, a meno che questi non si occupino delle loro. Non ho mai visto uno di quei Maghi, anche se ho parlato con gente che giura di averli visti, che dice di aver scorto fra gli strapiombi uomini al tramonto o all'alba... uomini alti e silenziosi, vestiti di nero.»

«Avresti paura di attaccarli?»

«Io?» L'idea sembrò nuova per lui. «Beh, se ce l'avessero con me, si tratterebbe della mia vita contro la loro. Ma io non ho niente a che fare con quelli. Sono venuto fra queste montagne per mettere su una banda di esseri umani, non per far guerra agli Stregoni.»

Yasmina non rispose subito. Osservava la montagna come un nemico umano, sentendo di nuovo agitarsi in petto tutto l'odio e il rancore. E un'altra sensazione cominciò ad assumere una vaga forma. Aveva tramato di scatenare contro i Signori dello Yimsha l'uomo che ora la teneva fra le braccia. Forse esisteva un'altra via, oltre a quella che aveva elaborato, per raggiungere lo stesso scopo. Non poteva fraintendere la luce che stava cominciando a spuntare nei fieri occhi del cimmero, quando si posavano su di lei. Imperi erano andati in rovina, quando a reggere le redini del destino c'erano le mani sottili di una donna. Improvvisamente si irrigidì, e indicò qualcosa.

«Guarda lassù!»

Appena visibile, sospesa sopra il picco lontano, c'era una nuvola d'aspetto particolare. Era di un gelido color carminio, venato di pagliuzze dorate. Si moveva ruotando su se stessa e mentre ruotava, si contraeva. Si rimpicciolì fino a diventare un cono filiforme che brillò al sole. Poi, all'improvviso, si staccò dal picco ammantato di neve, fluttuò nel vuoto come una piuma vivacemente colorata, e diventò invisibile nell'azzurro del cielo.

«Cosa poteva essere?», chiese a disagio la ragazza, quando uno sperone di roccia nascose alla vista la montagna lontana. Il fenomeno, anche nella sua bellezza, l'aveva scossa.

«I montanari lo chiamano il Tappeto di Yimsha, qualsiasi cosa questo voglia dire,» rispose Conan. «Ho visto cinquecento uomini scappare come se avessero i diavoli alle calcagna, e nascondersi nelle grotte e nei crepacci solo perché avevano scorto quella nuvola rossastra fluttuare sopra il picco. Che cosa...»

Erano avanzati attraverso uno stretto squarcio chiuso da pareti turrite, ed erano emersi su un largo costone fiancheggiato da un lato da una serie di pendii scoscesi e dall'altro da un precipizio gigantesco. La pista appena accennata seguiva il costone, girava attorno a uno sperone roccioso e ricompariva a tratti molto più in basso, procedendo piena di curve fino a fondovalle. Appena sul costone, il cavallo si arrestò bruscamente, sbuffando. Conan lo spronò impaziente, ma il cavallo continuò a sbuffare, muovendo la testa su e giù, agitandosi e sforzandosi come se lottasse contro un'invisibile barriera.

Il cimmero imprecò e saltò giù di sella, facendo smontare anche Yasmina. Avanzò di qualche passo, con una mano tesa in avanti come se si aspettasse di incontrare resistenza, ma non c'era nulla a ostacolarlo. Eppure, quando tentò di far avanzare il cavallo, l'animale nitrì sonoramente impennandosi. Poi Yasmina urlò, e Conan si girò, con la mano che già andava all'elsa del tulwar.

Nessuno dei due l'aveva visto arrivare, eppure c'era un uomo, fermo a braccia conserte, con una veste di pelo di cammello e un turbante verde. Conan grugnì sorpreso riconoscendo l'uomo travolto dallo stallone nella gola dietro il villaggio wazuli.

«Chi diavolo sei?», chiese.

L'uomo non rispose. Aveva gli occhi spalancati, fissi, di una luminosità particolare. Occhi che attiravano e trattenevano i suoi come una calamita.

La Magia di Khemsa era basata sull'ipnotismo, come molta della Magia Orientale. Gli ipnotizzatori avevano avuto la strada preparata da innumerevoli centinaia di generazioni che erano vissute e morte nella ferma convinzione dell'esistenza e del potere dell'ipnotismo, costruendo per mezzo di credenze popolari e di fatti reali un'enorme quanto intangibile atmosfera contro la quale l'individuo, impregnato delle tradizioni del paese, era inerme.

Ma Conan non era un figlio dell'Oriente. Le tradizioni orientali erano per lui senza significato: era il prodotto di un'atmosfera completamente diversa. L'ipnotismo non era neppure un leggenda, nella Cimmeria. Conan non possedeva quelle caratteristiche ereditarie che portavano un orientale a sottomettersi all'ipnotizzatore.

Era conscio di quel che stava cercando di fargli Khemsa; ma avvertiva l'impatto del misterioso potere dell'uomo solo come un vago impulso, una spinta e una pressione che poteva spazzare via come una ragnatela dai vestiti.

Conscio dell'ostilità dell'uomo e dell'uso della Magia Nera, Conan estrasse il tulwar e si lanciò rapido e improvviso come una tigre.

Ma l'ipnotismo non era l'unica risorsa magica di Khemsa. Yasmina, pur guardando attentamente, non riuscì a capire con quale trucco o illusione l'uomo col turbante verde evitasse il terribile colpo che avrebbe dovuto sbudellarlo. La lama affilata passò fra il fianco e il braccio sollevato, e sembrò che Khemsa si limitasse a strofinare leggermente il palmo aperto contro il collo taurino di Conan, ma il cimmero cadde a terra come un bue macellato.

Tuttavia Conan non era morto: mentre col braccio sinistro attutiva la caduta, menò un fendente contro le gambe di Khemsa, e il Rakhsha evitò il colpo con un balzo all'indietro ben poco degno di uno Stregone. Poi Yasmina lanciò una vivace esclamazione, vedendo una donna, che riconobbe per Gitara, scivolar fuori dalle rocce e avvicinarsi all'uomo. Ma il saluto le morì in gola, quando si accorse dell'odio che brillava sul viso grazioso della ragazza.

Conan si rialzò lentamente, scosso e meravigliato per la crudele abilità del colpo che, vibrato con un'arte già dimenticata dagli uomini prima che s'inabissasse Atlantide, avrebbe spezzato come un rametto marcio il collo di un uomo meno robusto. Khemsa lo guardò con aria cauta e un po' incerta. Il Rakhsha si era reso conto di possedere enormi poteri quando aveva dovuto fronteggiare i coltelli dei Wazuli impazziti nella gola dietro il villaggio di Khurum; ma la resistenza del cimmero aveva scosso un poco la sua fiducia, appena acquisita. La Stregoneria prospera sul successo, non sul fallimento.

Fece un passo avanti, alzando la mano... poi si fermò come impietrito, con la testa inclinata all'indietro, gli occhi spalancati, le mani alzate. Senza volerlo, Conan seguì lo sguardo, e lo stesso fecero le due donne: la ragazza rincantucciata vicino allo stallone tremante, e la ragazza al fianco di Khemsa.

Giù per i pendii scoscesi, come un turbine di polvere rilucente spinto dal vento, arrivò roteando una nuvola scarlatta a forma di cono. Il volto bruno di Khemsa divenne color della cenere; la mano gli tremò e gli ricadde lungo il fianco. La ragazza che gli stava vicino, avvertendo il mutamento, lo guardò con aria interrogativa.

La forma scarlatta abbandonò il fianco della montagna e venne giù compiendo una lunga traiettoria arcuata. Colpì il costone fra Conan e Khemsa, e il Rakhsha balzò indietro con un grido soffocato. Indietreggiò ancora, spingendo a tentoni Gitara dietro di sé, come a proteggerla.

La nuvola scarlatta rimase per un attimo in equilibrio come una trottola, roteando sulla punta in uno splendore abbagliante. Poi svanì senza preavviso, come una bolla che scoppia, e sul costone ci furono quattro uomini. Era miracoloso, incredibile, impossibile, eppure vero. Non erano spettri o fantasmi: erano quattro uomini, alti, con la testa rasata, lineamenti da avvoltoio, e tuniche nere che scendevano a coprire i piedi. Tenevano le mani nascoste nelle maniche ampie.

Rimasero silenziosi, muovendo leggermente all'unisono la testa nuda. Stavano di fronte a Khemsa, eppure Conan, che si trovava alle loro spalle, sentì il sangue farglisi di ghiaccio nelle vene. Si rimise in piedi e indietreggiò barcollando, finché non avvertì contro la schiena il fianco tremante dello stallone e Yasmina che cercava la protezione delle sue braccia. Non ci furono parole. Il silenzio era come una cappa soffocante.

Tutt'e quattro gli uomini vestiti di nero guardavano Khemsa. I volti d'avvoltoio erano immobili, gli occhi persi in contemplazione interiore. Ma Khemsa tremava come se avesse la febbre malarica. Teneva i piedi piantati contro la roccia, con i muscoli dei polpacci tesi come in una lotta fisica. Il sudore gli scorreva in rivoletti lungo il volto bruno. Teneva la destra così disperatamente stretta contro qualcosa nascosto sotto la tunica marrone che il sangue ne era fluito via. La sinistra ricadde sulla spalla di Gitara e si chiuse in una morsa agonizzante come la stretta di chi sta per annegare. La ragazza non cercò di sottrarsi e non protestò, anche se le dita di lui le penetravano nella carne come artigli.

Conan aveva assistito a centinaia di battaglie nella sua vita selvaggia, ma a nessuna paragonabile a quella; quattro diaboliche volontà cercavano di sopraffarne una più debole, ma egualmente diabolica, che si opponeva ad esse. Ma percepiva solo fuggevolmente il carattere mostruoso di quella orribile lotta. Con la schiena contro la parete, tenuto in scacco dai suoi padroni di prima, Khemsa combatteva per la propria vita con tutto il suo tenebroso potere, con tutta la spaventevole conoscenza che essi gli avevano insegnato in lunghi, foschi anni di iniziazione e vassallaggio.

Era più forte di quanto avesse mai sospettato, e il libero esercizio dei suoi poteri a suo esclusivo beneficio aveva dato sfogo a insospettate riserve di energie. E le sue forze erano moltiplicate dal terrore e dalla disperazione. Vacillava davanti all'impatto spiegato di quegli occhi ipnotici, ma resisteva. Aveva i lineamenti contorti in una bestiale smorfia d'agonia, le membra stiracchiate come sotto la ruota di tortura. Era una guerra d'anime, di menti spaventose, impregnate di tradizioni proibite agli uomini per milioni di anni, di spiriti che avevano scandagliato gli abissi e esplorato gli astri tenebrosi dove nascono le ombre.

Yasmina capiva tutto ciò meglio di Conan. E capiva oscuramente come mai Khemsa potesse sopportare l'impatto concentrato di quelle quattro infernali volontà che avrebbero potuto ridurre a minutissimi frammenti la roccia stessa sulla quale si trovava. La spiegazione era la ragazza alla quale Khemsa si teneva aggrappato con la forza della disperazione. Era lei l'ancora di quell'anima squassata, sbattuta dai marosi delle emanazioni psichiche. Quello che era stato un attimo di debolezza costituiva ora la sua forza. L'amore per la ragazza, per quanto violento e funesto potesse essere, era tuttavia un legame che lo avvinceva al resto dell'umanità, fornendogli un appiglio terreno, una catena che i suoi nemici preterumani non potevano spezzare; almeno, non attraverso lui stesso.

I quattro lo intuirono prima di lui. E uno di essi distolse lo sguardo dal Rakhsha per rivolgerlo su Gitara. Questa volta non ci fu lotta. La ragazza si contrasse e si avvizzì come una foglia nella calura. Sospinta irresistibilmente, si strappò dalle braccia dell'innamorato prima che questi capisse cosa stava succedendo. E allora avvenne una cosa terribile. La ragazza cominciò a indietreggiare verso il precipizio, sempre fronteggiando i suoi aguzzini, con gli occhi spalancati e vuoti come un vetro scuro dietro il quale rimane il barlume di una lampada appena spenta.

Khemsa gemette e barcollò verso di lei, cadendo nella trappola che gli era stata tesa. Una mente divisa non poteva sostenere quella lotta ineguale. Ormai era sconfitto, una pagliuzza nelle loro mani. La ragazza indietreggiava, camminando come un burattino, e Khemsa traballava come un ubriaco dietro di lei, le mani vanamente protese, gemendo, sbavando di dolore, con i piedi che si muovevano lentamente come cose morte.

Proprio sul ciglio Gitara si fermò, rigida, con i talloni sull'orlo, e Khemsa cadde in ginocchio e strisciò piangendo verso di lei, cercando di afferrarla, di strapparla alla morte sicura. Ma, proprio prima che riuscisse a toccarla con le dita goffamente protese, uno dei Maghi rise: una risata improvvisa come il rintocco bronzeo di una campana infernale. La ragazza vacillò e, raffinato apice di squisita crudeltà, ragione e comprensione le affluirono nuovamente negli occhi, che si illuminarono di un terrore senza nome. Urlò, tentò selvaggiamente di afferrare le mani dell'amante, e poi, senza poter fare nulla per salvarsi, precipitò a capofitto con un grido lamentoso.

Khemsa si trascinò sull'orlo e guardò oltre, con gli occhi iniettati di sangue, le labbra contorte come se stesse mormorando qualcosa tra sé. Poi si voltò e fissò per un lungo attimo i suoi aguzzini, con occhi sbarrati che non avevano più nulla d'umano. E con un grido che quasi squarciò le rocce, si rialzò barcollando e si avventò verso di loro con un pugnale sguainato.

Uno degli ipnotizzatori si fece avanti e batté il piede per terra: quasi contemporaneamente ci fu un brontolio che crebbe rapidamente d'intensità fino a diventare un ruggito tormentoso. Dove il piede aveva colpito il suolo, si aprì un crepaccio nella solida roccia, che si allargò istantaneamente. Con un rombo assordante, un'intera sezione del costone precipitò. Khemsa fu ancora visibile un attimo, con le braccia spalancate, poi svanì in mezzo al rombo della valanga che tuonò giù nell'abisso.

I quattro contemplarono lo spigolo frastagliato di roccia che costituiva il nuovo orlo del costone, poi si voltarono all'improvviso. Conan, sbattuto per terra dal tremito della montagna, si stava rialzando, sollevando Yasmina. Pareva muoversi con la stessa lentezza dei suoi processi mentali. Avvertiva che c'era una disperata necessità di far salire la devi sul cavallo e di galoppare via come il vento, ma un torpore inesplicabile gli rallentava pensieri ed azioni.

Ora i Maghi, che si erano girati verso di lui, alzarono le braccia, ed egli vide, colmo di orrore, che i loro lineamenti diventavano indistinti, vaghi e nebulosi, mentre un fumo scarlatto sgorgava da sotto i loro piedi e si alzava ad avvolgerli. Furono di colpo nascosti da una nuvola roteante... e poi si accorse che lui stesso era avvolto in un'accecante nebbia scarlatta... Udì Yasmina gridare, e lo stallone nitrire come una donna in travaglio. La Devi gli fu strappata dalle braccia e, mentre colpiva alla cieca col coltellaccio, un urto terribile come lo scoppio di una tempesta lo scagliò contro la parete rocciosa. Guardò stupefatto una nuvola scarlatta a forma di cono roteare su per i fianchi della montagna e superarla. Yasmina era sparita, ed erano spariti i quattro uomini vestiti di nero. Con lui sul costone era rimasto soltanto lo stallone terrorizzato.

 

7.

 

Le ragnatele svanirono dalla mente di Conan come nebbia di fronte a un vento furioso. Con un'imprecazione bruciante il cimmero balzò in sella allo stallone che si impennava e nitriva. Lanciò un'occhiata alle pareti scoscese, esitò, poi si incamminò per il sentiero che stava percorrendo prima di essere fermato dai magici inganni di Khemsa. Ma ora non procedeva più al piccolo trotto. Allentò le redini e lo stallone si lanciò come un fulmine al galoppo, come se sentisse il bisogno di eliminare il terrore con l'azione violenta. Si tuffò a rompicollo per il costone, attorno al burrone, giù lungo lo stretto sentiero. La pista seguiva una falda di roccia che serpeggiava interminabile attraverso un susseguirsi di scarpate; una volta, molto più in basso, Conan ebbe una fuggevole visione della slavina... una colossale montagna di pietre scheggiate e macigni ai piedi di un dirupo gigantesco.

Il fondovalle era ancora molto lontano quando raggiunse una lunga cresta sopraelevata che si staccava dal fianco della montagna come un marciapiede naturale. Cavalcò lungo di essa, in mezzo a due dirupi quasi a picco. Il sentiero che doveva seguire gli si stendeva chiarissimo davanti: dopo un lungo tratto abbandonava la cresta e compiva una grande curva a ferro di cavallo finendo nel letto del fiume alla sua sinistra. Maledisse la necessità di percorrere tutte quelle miglia, ma era l'unica via. Cercare di scendere fino alla curva successiva del sentiero equivaleva a tentare l'impossibile. Solo un uccello avrebbe potuto raggiungere il letto del fiume con l'osso del collo intatto.

Così incitò lo stallone già provato, finché un tintinnio di zoccoli, proveniente dal basso, attirò la sua attenzione. Fermò il cavallo e si avvicinò all'orlo dello strapiombo, guardando verso il letto asciutto del fiume che serpeggiava ai piedi della cresta. Nella gola sottostante stava avanzando una folla multicolore di cavalieri... uomini barbuti su cavalli quasi selvaggi, cinquecento montanari armati fino ai denti. Lanciò un secco richiamo, sporgendosi oltre l'orlo dello strapiombo, trecento piedi sulle teste dei cavalieri.

A quel richiamo i montanari tirarono le redini, e cinquecento volti barbuti si alzarono guardando nella sua direzione; un ruggito profondo riempì la gola. Conan non sprecò parole.

«Stavo cavalcando verso Ghor!», ruggì. «Non speravo di incontrarvi lungo la pista, cani! Seguitemi con tutta la velocità che potete cavar fuori da quei ronzini! Sto dirigendomi verso lo Yimsha e...»

«Traditore!» L'urlo fu come un secchio d'acqua fredda in piena faccia.

«Che cosa?» Li guardò stupito, senza sapere cosa aggiungere. Vide occhi selvaggi che lo fulminavano, facce stravolte dalla rabbia, braccia che agitavano coltellacci.

«Traditore!», gli ripeterono con un ruggito che veniva dal profondo del cuore. «Dove sono i setti capitribù imprigionati a Peshkauri?»

«Nelle prigioni del Governatore, credo.»

Gli rispose un urlo assetato di sangue proveniente da centinaia di gole, insieme a un agitar di armi e un clangore che coprì quel che stavano dicendo. Con un urlo belluino riuscì a sovrastare il frastuono.

«Che scherzo del diavolo è questo? Lasciate parlare uno solo, così capisco.»

Un vecchio capo rinsecchito si fece avanti, scuotendo verso di lui il tulwar con fare minaccioso.

«Non hai voluto che assalissimo Peshkhauri per liberare i nostri fratelli,» urlò in tono accusatorio.

«Certo che no, banda di pazzi!», tuonò Conan esasperato. «Anche se foste riusciti a fare una breccia nel muro, e questo mi pare impossibile, li avrebbero impiccati prima che foste riusciti ad arrivare fino a loro!»

«E sei andato da solo a trafficare col Governatore!», gridò l'afghuli schiumando dalla rabbia.

«Ebbene?»

«Dove sono i sette capitribù?», ululò il vecchio, facendo roteare il tulwar attorno alla testa come una girandola d'acciaio scintillante. «Dove sono? Sono morti!»

«Cosa?» A momenti Conan cadde da cavallo per la sorpresa.

«Sì, morti!», risposero in coro cinquecento voci assetate di sangue.

Il vecchio capotribù agitò ancora le braccia e si fece nuovamente avanti. «Non sono stati impiccati!», strillò. «Un wazuli che era in un'altra cella li ha visti moririre! Il Governatore ha mandato uno Stregone a ucciderli con la Magia!»

«Dev'essere una frottola,» disse Conan. «Il Governatore non avrebbe osato. La scorsa notte ho parlato con lui...»

Fu un'ammissione sfortunata. Un urlo d'odio e d'accusa squarciò il cielo.

«Sì! Sei andato da lui da solo! Per tradirci! Non è una frottola. Il wazuli è riuscito a fuggire perché lo Stregone entrando aveva scardinato le porte. Ed ha raccontato la storia ai nostri esploratori incontrati nel passo dello Zhaibar. Li avevamo mandati a cercarti, vedendo che non tornavi. Quando hanno sentito il racconto del wazuli, sono tornati a Ghor in fretta e furia, e noi abbiamo sellato i cavalli e preparato le spade!»

«E cosa avete intenzione di fare, banda di pazzi?», chiese il cimmero.

«Vendicare i nostri fratelli!», ulularono. «A morte gli Kshatriyani! Uccidiamolo, fratelli! È un traditore!»

Mentre cominciavano a piovergli frecce tutt'attorno, Conan si alzò sulle staffe e tentò di farsi udire sopra il tumulto; ma poi, con un ruggito che esprimeva rabbia, sfida e disgusto, si girò e tornò indietro al galoppo lungo la pista. Più in basso, dietro di lui, gli Afghuli continuarono a scagliare frecce, urlando di rabbia, troppo furiosi per ricordarsi che l'unico modo per raggiungere l'alto costone sul quale galoppava il cimmero consisteva nel traversare il letto del fiume in direzione opposta, percorrere l'ampia curva e seguire il sentiero che serpeggiava su fino alla cresta. Quando se ne ricordarono e tornarono indietro, il capo ripudiato aveva già quasi raggiunto il punto in cui la cresta si congiungeva alla scarpata.

Giunto all'altezza del fianco della montagna, Conan non seguì il sentiero che aveva percorso nella discesa, ma deviò per una pista che non era niente più di una semplice traccia lungo una slavina, dove il cavallo faticava a trovare appoggi. Non aveva percorso molto terreno quando lo stallone sbuffò e scartò per evitare qualcosa che giaceva sulla pista. Conan rimase a fissare una parvenza d'uomo, un ammasso sanguinolento di carne lacerata e ossa frantumate che borbottava e digrignava i denti scheggiati.

Solo gli Dei tenebrosi che reggono i foschi destini dei Maghi possono sapere come avesse fatto Khemsa a trascinare il suo corpo massacrato da sotto quel cumulo spaventoso di rocce su per l'erto pendio fino al sentiero.

Spinto da qualche oscuro motivo, Conan smontò e rimase a guardare quella forma spaventosa, rendendosi conto di essere testimone di una cosa miracolosa e innaturale. Il Rakhsha sollevò la testa imbrattata di sangue coagulato e soffermò su Conan gli strani occhi, vitrei per l'avvicinarsi della morte; nel suo sguardo brillò un barlume di riconoscimento.

«Dove sono andati?», chiese con un gracchiare rauco che non assomigliava neppure lontanamente al suono di voce umana.

«Sono tornati in quel loro maledetto castello sullo Yimsha», borbottò Conan. «Hanno portato la Devi con loro.»

«Ci andrò anch'io!», mormorò l'uomo. «Li seguirò! Hanno ammazzato Gitara. Li ammazzerò tutti... gli Accoliti, i Quattro del Cerchio Nero, il Maestro stesso! Li ammazzerò... li ammazzerò tutti!» Si sforzò di trascinare lungo la roccia il proprio corpo massacrato ma persino la sua indomabile forza di volontà non riusciva più ad animare quella massa sanguinolenta, nella quale le ossa spezzate erano tenute insieme solo da tessuti lacerati e tendini strappati.

«Seguili!», mormorò Khemsa come in delirio, sbavando sangue. «Seguili!»

«È quello che sto facendo», brontolò Conan. «Sono andato a cercare i miei Afghuli, ma mi si sono rivoltati contro. Vado sulla Yimsha da solo. Riporterò indietro la Devi, dovessi squarciare quella maledetta montagna con le mie mani nude. Non pensavo che il Governatore avrebbe osato ammazzare i miei montanari, sapendo che la Devi era in mano mia, ma sembra che l'abbia fatto. Pagherà con la testa, per questo. Adesso la Devi non mi serve a niente come ostaggio, però.»

«Yizil li maledica!», boccheggiò Khemsa. «Vai! Io... io sto morendo. Aspetta... prendi la mia cintura.»

Cercò di frugare con la mano maciullata fra gli stracci che lo coprivano e Conan, comprendendo cosa cercava di fare, si chinò e tolse dalla veste insanguinata una cintura dall'aspetto bizzarro.

«Attraversa l'abisso seguendo la venatura dorata,» mormorò Khemsa. «Porta su di te la cintura. L'ho avuta da un Sacerdote stygiano. Ti aiuterà, anche se a me non è servita fino alla fine. Rompi il globo di cristallo con le quattro melagrane d'oro. Stai attento alle trasformazioni del Maestro... Io vado a raggiungere Gitara... mi sta aspettando nell'Inferno... Aie, ya Skelos yar!» E morì.

Conan osservò la cintura. Era intessuta di un crine che non era di cavallo. Era quasi convinto che si trattasse di neri capelli di donna intrecciati. Nelle maglie erano inserite piccole pietre preziose di un tipo che non aveva mai visto prima. Aveva un curioso fermaglio dorato, fatto a forma di testa di serpente, piatto e triangolare, con le scaglie artisticamente incise. Fu scosso da un forte brivido quando la strinse in mano, e si girò come per buttarla nel burrone; poi ci ripensò, e infine se l'affibbiò attorno alla cintola, sotto la fascia di Bakhariot. Montò a cavallo e andò avanti.

 

Il sole era calato dietro le pareti rocciose. Conan procedeva lungo il sentiero in salita, immerso nelle ampie ombre dei pendii che formavano come un ampio mantello blu scuro che avvolgeva le valli e le creste sottostanti. Non si era allontanato molto dal costone quando, girando attorno allo sperone formato da una parete sporgente, udì davanti a sé lo scalpitio di zoccoli ferrati. Non si girò indietro, perché il sentiero era così stretto che lo stallone, col suo corpo massiccio, non sarebbe riuscito a fare dietrofront. Oltrepassò la sporgenza della roccia e si trovò su un tratto di sentiero un po' più ampio. Gli scoppiò nelle orecchie un coro di urla minacciose, ma il suo stallone aveva intrappolato un cavallo terrorizzato contro la roccia. Afferrò in una morsa d'acciaio il braccio del cavaliere, fermando a mezz'aria la spada alzata.

«Kerim Scià!», mormorò, mentre bagliori sinistri gli si accendevano negli occhi. Il turaniano non oppose resistenza. Erano quasi faccia a faccia, e Conan stringeva in una morsa il braccio dell'altro. Dietro Kerim Scià c'era una fila di magri Irakzai montati su cavalli sparuti. Avevano gli occhi scintillanti d'odio e impugnavano archi e coltellacci, ma rimasero indecisi a causa della strettezza del sentiero e della pericolosa vicinanza dell'abisso che si spalancava sotto di loro.

«Dov'è la Devi?», chiese Kerim Scià.

«E tu che c'entri con lei, spia degli Hyrkaniani?», ringhiò Conan.

«So che era con te. Stavo andando verso nord con i miei uomini quando siamo caduti in un'imboscata nel Passo dei Shalizah. Parecchi dei miei sono stati uccisi, e gli altri sono fuggiti per le montagne come sciacalli. Dopo aver fatto perdere le tracce agli inseguitori, abbiamo piegato verso occidente, attraverso il Passo di Amir Jehun, e stamattina siamo capitati addosso a un wazuli che vagava per le montagne. Era quasi impazzito ma, prima che morisse, sono venuto a sapere parecchio dai suoi borbottii incoerenti. Era l'unico superstite di una banda che aveva inseguito un capotribù degli Afghuli e una prigioniera kshatriyana in un burrone dietro il villaggio di Khurum. Ha balbettato per un bel po' a proposito di un uomo col turbante verde, il quale, calpestato dal cavallo dell'afghuli, quando però fu attaccato dai Wazuli lanciati all'inseguimento, aveva scagliato su di loro una Magia innominabile, che li ha spazzati via come un incendio sospinto dal vento spazza via uno stormo di cavallette.

«Non so come quell'uomo si fosse salvato, e non lo sapeva nemmeno lui, ma da quelle frasi smozzicate ho appreso che Conan di Ghor era stato nel villaggio di Khurum con la sua prigioniera. Proseguendo per le montagne, abbiamo raggiunto una ragazza Galzai, nuda, che portava una zucca piena d'acqua. Ci ha raccontato di essere stata derubata dei vestiti e violentata da uno straniero gigantesco vestito come un capotribù afghuli, che aveva dato i suoi vestiti a una donna vendhyana che era con lui. Ha detto che vi eravate diretti a occidente.»

Kerim Scià non credette opportuno spiegare che stava recandosi all'appuntamento con l'esercito proveniente da Secunderam, quando aveva trovato la strada sbarrata da montanari ostili. La strada per la valle di Gurashah attraverso il passo di Shalizah era più lunga di quella che serpeggiava attraverso il Passo di Amir Jehun, ma quest'ultima attraversava una parte del territorio afghuli, che Kerim Scià era stato ansioso di evitare, almeno fin quando non avesse avuto un esercito con sé. Non potendo percorrere la strada del Shalizh, aveva intrapreso nonostante tutto la strada più pericolosa, finché la notizia che Conan non aveva ancora raggiunto l'Afghulistan con la prigioniera l'aveva indotto a piegare verso sud e a procedere a tutta velocità, nella speranza di raggiungere Conan fra le montagne.

«Quindi è meglio che tu mi dica dov'è la Devi», concluse Kerim Scià. «Noi siamo un bel numero e tu...»

«Se uno solo dei tuoi cani si prova a incoccare una freccia, ti scaravento nel burrone,» promise Conan. «Comunque, non ci guadagnereste niente ad ammazzarmi. Ho cinquecento Afghuli alle calcagna e, se trovano che li avete preceduti, vi scuoiano vivi. E poi non ho più la Devi. È nelle mani dei Veggenti Neri dello Yimsha.»

«Per il Tarim!», imprecò Kerim Scià a bassa voce, perdendo per la prima volta il controllo di sé. «Khemsa...»

«Khemsa è morto», brontolò Conan. «I suoi padroni l'hanno mandato all'altro mondo con una frana. E ora togliti di mezzo. Sarei ben felice di farti la pelle, se avessi tempo. Ma sto andando sullo Yimsha.»

«Vengo con te,» disse subito il turaniano.

Conan gli rise in faccia. «Credi che mi fidi di un cane d'hyrkano?»

«Non ti chiedo di fidarti. Tutt'e due vogliamo la Devi. I miei motivi li conosci: Re Yezdigerd vuole annettere la Vendhya al suo Impero, e la Devi al suo serraglio. E io ti conosco da quando eri un capitano dei Kozaki delle steppe, e so che le tue ambizioni consistono solo nel far bottino. Vuoi saccheggiare la Vendhya, e spremere un gigantesco riscatto in cambio della Devi. Bene, per il momento, e senza farci illusioni uno sull'altro, uniamo le nostre forze e cerchiamo di liberare la Devi dalle mani dei Veggenti. Se ci riusciamo e restiamo vivi, avremo il tempo di combattere tra noi due per vedere chi se la terrà.»

Conan lo fissò per un attimo socchiudendo gli occhi, poi annuì, lasciando libero il braccio del turaniano. «D'accordo. E i tuoi uomini?»

Kerim Scià si voltò verso gli Irakzai silenziosi. «Io e questo capotribù andiamo sullo Yimsha per combattere i Maghi,» disse. «Volete venire con noi, o preferite restarvene qui a farvi scorticare vivi dagli Afghuli che lo stanno inseguendo?»

Gli uomini gli lanciarono un'occhiata cupa carica di fatalismo. Ormai erano condannati e lo sapevano... l'avevano saputo da quando le frecce sibilanti dei Dagozai li avevano costretti a fuggire dal Passo di Shalizah. Gli uomini delle terre sotto lo Zhaibar avevano troppe faide sanguinose con le tribù delle montagne. Erano una banda troppo piccola per aprirsi la strada combattendo attraverso le montagne fino ai villaggi della frontiera, senza la guida dell'esperto turaniano. Ormai si consideravano già morti, così risposero come avrebbero risposto solo dei condannati a morte: «Verremo con te, e moriremo sullo Yimsha.»

«Allora, per Crom, andiamo avanti,» brontolò Conan, agitandosi con impazienza, mentre le ombre bluastre del crepuscolo si addensavano. «La mia banda di lupi era indietro di parecchie ore, ma abbiamo perduto un bel po' di tempo.»

Kerim Scià fece indietreggiare il cavallo fra lo stallone nero e la parete di roccia, rinfoderò la spada e, con molta cautela, fece dietro front. Ora la banda procedeva in fila indiana su per il sentiero, affrettandosi il più possibile, finché arrivò a una cresta circa un miglio a oriente dal luogo in cui Khemsa aveva fermato il cimmero e la Devi. Il sentiero che seguivano era pericoloso, anche per i montanari, e per questo Conan l'aveva evitato quando portava con sé Yasmina, mentre invece Kerim Scià, inseguendolo, aveva preso quella pista ritenendo che il cimmero avesse fatto così.

Quando i cavalli superarono a fatica l'ultimo tratto, persino Conan trasse un sospiro di sollievo. Si movevano come cavalieri fantasma in un incantato reame d'ombre. Il debole scricchiolio del cuoio e il tintinnio dell'acciaio segnarono il loro passaggio; poi i tenebrosi pendii montani rimasero di nuovo deserti e silenziosi al chiarore delle stelle.

 

8.

 

Yasmina ebbe il tempo di emettere soltanto un grido, mentre il turbine scarlatto l'avvolgeva e una forza spaventosa la strappava dalle braccia protettrici del cimmero. Urlò una volta sola e poi non ebbe più fiato per gridare. Fu accecata, assordata, resa muta e infine privata dei sensi dallo spaventoso fragore dell'aria tutt'intorno. Le rimase l'impressione confusa di un'altezza vertiginosa e di una velocità paralizzante, di sensazioni impazzite, e poi deliquio e oblio.

Quando riascquistò conoscenza, era ancora pervasa da una traccia di queste sensazioni; emise un grido e cercò disperatamente di afferrarsi a qualcosa, come per fermare un involontario volo a capofitto. Le dita si chiusero su un soffice tessuto e provò con sollievo un senso di stabilità.

Era sdraiata su un divano rivestito di velluto nero. Si trovava in una stanza ampia e scarsamente illuminata, alle cui pareti erano appesi drappi scuri, ricamati con draghi striscianti riprodotti con realismo impressionante. Ombre fluttuanti lasciavano soltanto indovinare l'altezza del soffitto e negli angoli si acquattavano tenebre che si prestavano a provocare illusioni. Sembrava che porte e finestre mancassero; o forse erano nascoste dai drappi cupi. Non riuscì a stabilire da dove provenisse la scarsa illuminazione. La grande stanza era un regno di mistero, di ombre, di forme indistinte che le davano l'impressione del movimento, pervadendole la mente di un terrore tenebroso e informe.

Poi fissò lo sguardo su un oggetto tangibile: un uomo che stava seduto a gambe incrociate sopra un divano nero un po' più piccolo, e le restituiva lo sguardo con aria meditabonda. Portava una lunga veste di velluto nero, ricamata con fili d'oro, che gli ricadeva addosso mascherandogli la figura. Teneva le mani nascoste nelle maniche e portava un copricapo di velluto. Aveva il volto calmo, tranquillo, non spiacevole, e gli occhi evasivi, leggermente obliqui. Stava seduto e la osservava senza muovere un muscolo, senza cambiare espressione, neanche quando si accorse che aveva riacquistato conoscenza.

Yasmina sentì la paura strisciarle lungo la spina dorsale come un rivoletto d'acqua gelida. Si sollevò sui gomiti e osservò con timore lo straniero.

«Chi sei?», chiese. La voce risuonò fragile e stonata.

«Sono il Maestro dello Yimsha.» Il tono era profondo e sonoro, come le note mielate della campana di un tempio.

«Perché mi hai portata qui?»

«Non mi stavi cercando?»

«Se tu sei uno dei Veggenti Neri... sì!», rispose Yasmina sconsideratamente, convinta però che le potesse comunque leggere i pensieri.

L'uomo rise piano, e di nuovo lunghi brividi le corsero lungo la schiena.

«Avresti voluto aizzare i selvaggi figli delle montagne contro i Veggenti dello Yimsha. Te l'ho letto nella mente, Principessa. Nella tua debole mente umana, piena di sogni infantili d'odio e vendetta.»

«Hai ammazzato mio fratello!» Sentì nascerle dentro un'ondata di rabbia che rivaleggiava con la paura; teneva le mani strette a pugno, il corpo irrigidito. «Perché l'hai perseguitato? Non ti aveva mai fatto nulla. I Sacerdoti dicono che i Veggenti si disinteressano delle faccende umane. Perché hai distrutto il Re di Vendhya?»

«Come può una comune mortale comprendere i motivi di un Veggente?», ritorse il Maestro con voce calma. «I miei Accoliti dei Templi turaniani, che sono i Sacerdoti che manovrano i fili dei Sacerdoti del Tarim, mi hanno spinto a muovermi in favore di Yezdigerd. Per ragioni mie personali, ha accondisceso. Come posso spiegare delle mistiche ragioni al tuo intelletto meschino? Non potresti capire.»

«Però una cosa la capisco: mio fratello è morto!» Lacrime di dolore e di rabbia le facero tremare la voce. Si alzò sulle ginocchia e lo osservò con occhi spalancati e lucidi, flessuosa e pericolosa come una pantera.

«Così come Yezdigerd desiderava», concordò calmo il Maestro. «Per un po' ho voluto assecondare le sue ambizioni.»

«Yezdigerd è tuo vassallo?» Yasmina cercò di mantenere inalterato il tono di voce. Aveva sentito il ginocchio premere contro qualcosa di duro e simmetrico, sotto il velluto. Cambiò lentamente posizione, muovendo la mano fra le pieghe della stoffa.

«Forse che il cane che lecca gli avanzi nel cortile del tempio è vassallo del Dio?», le fece notare il Maestro.

Sembrava non accorgersi dei movimenti che la ragazza cercava di dissimulare. Sotto il velluto, le dita di Yasmina si strinsero attorno a quella che riconobbe per l'elsa dorata di un pugnale. Chinò la testa per nascondere il lampo di trionfo che le brillò negli occhi.

«Mi sono stancato di Yezdigerd,» proseguì il Maestro. «Mi sono rivolto ad altri divertimenti... ah!»

Con un urlo selvaggio, Yasmina balzò come un felino della giungla, vibrando un colpo mortale. Ma inciampò, scivolando per terra, dove rimase accucciata, guardando l'uomo sul divano. Il Maestro non aveva fatto alcuna mossa; il suo sorriso indecifrabile era rimasto immutato. Yasmina sollevò tremando la mano e spalancò gli occhi: fra le dita non stringeva un pugnale, ma solo un rametto di loto dorato, i cui boccioli schiacciati pendevano lungo lo stelo spezzato.

Lasciò cadere il ramoscello come se fosse stato una vipera e si allontanò dal suo aguzzino, tornandosene al divano che, se non altro, era più dignitoso per una Principessa di quanto non lo fosse lo strisciare per terra ai piedi d'uno Stregone; lo sogguardò quindi timorosa, aspettandosi rappresaglie.

Ma il Maestro non fece alcun movimento.

«Tutte le cose sono una cosa sola, per chi possiede la chiave del cosmo,» disse oscuramente. «Per un Adepto, nulla è immutabile. Volendolo, fiori d'acciaio sbocciano in giardini innominabili, oppure spade fiorite lampeggiano nella luce lunare.»

«Sei un demonio!», singhiozzò Yasmina.

«Io no!» E rise. «Sono nato su questo pianeta, molto tempo fa. Una volta ero un comune mortale, e non ne ho perso gli attributi durante gli innumerevoli secoli della mia iniziazione. Un essere umano che procede nelle Arti Tenebrose è più grande di un Demonio. Io sono di origine umana, ma comando i Demoni. Hai visto i Signori del Cerchio Nero... ti esploderebbe l'anima se tu udissi da quali regni lontani li ho evocati e da quale destino li proteggo col cristallo incantato e i serpenti dorati.

«Ma soltanto io posso comandarli. Quel pazzo di Khemsa pensava di essere diventato potente... Povero pazzo: squarciare porte terrene e lanciarsi con la sua amante attraverso l'aria, da montagna a montagna! Eppure, se egli non fosse stato distrutto, il suo potere sarebbe potuto aumentare fino a rivaleggiare col mio.»

Rise di nuovo. «E tu, povera debole cosa! Tramare di mandare un irsuto montanaro ad assalire lo Yimsha! Era uno scherzo che io stesso avrei potuto progettare, se mi fosse passato per la mente che tu saresti caduta nelle sue mani. E ho letto nella tua mente infantile l'intenzione di sedurlo con le astuzie femminili per raggiungere comunque il tuo scopo.

«Ma, con tutta la tua ottusità, sei una donna piacevole da guardare. Ho voglia di tenerti come schiava.»

A quella parola, la discendente di mille Imperatori orgogliosi boccheggiò di vergogna e di rabbia.

«Non oserai!»

La risata beffarda dell'uomo la colpì come una sferza sulle spalle nude.

«Il Re non osa calpestare un verme per strada? Piccola pazza, non capisci che per me il tuo orgoglio regale è come una pagliuzza trascinata dal vento? Io, che ho conosciuto i baci delle Regine dell'Inferno! Hai già visto come mi comporto con chi si ribella a me!»

Yasmina se ne stette rincantucciata sul divano ricoperto di velluto, piena di terrore. La luce divenne più fosca e spettrale. I lineamenti del Maestro si dissolsero nell'ombra e la sua voce acquistò un nuovo tono di comando.

«Non cederò mai!», dichiarò Yasmina, con la voce che tremava, ma che conservava un tono risoluto.

«Sì, cederai», replicò il Maestro con convinzione. «Paura e dolore te lo insegneranno. Ti sferzerò con orrori e sofferenze fino all'ultima goccia di resistenza, finché diverrai come cera fusa, pronta per essere modellata dalle mie mani a mio piacimento. Conoscerai castighi che nessuna donna umana ha mai conosciuto, finché ogni mio minimo comando diventerà per te l'immutabile volere degli Dei. E per prima cosa, per umiliare il tuo orgoglio, viaggerai indietro attraverso epoche perdute, e vedrai tutte le forme attraverso cui sei passata. Aie, yil la khosa!»

 

A quelle parole, Yasmina vide la stanza tenebrosa ondeggiarle davanti agli occhi terrorizzati. Senti che i capelli le si rizzavano sulla testa, che la lingua le si appiccicava al palato. Da qualche parte udì un gong risuonare con un rintocco profondo, di cattivo augurio. Vide i draghi sui drappi diventare splendenti come fuoco azzurrino e poi svanire. Sul divano, il Maestro era solo più un'ombra senza forma. La luce confusa lasciò il posto a una tenebra ovattata, quasi tangibile, che pulsava di strane radiazioni. Non riusciva più a vedere il Maestro. Non vedeva più nulla. Ebbe la strana sensazione che le pareti e il soffitto si fossero enormemente allontanati da lei.

Poi, da qualche parte nelle tenebre, spuntò un bagliore, simile a quello di una lucciola, che diventava ritmicamente più debole e più intenso, e che crebbe fino a diventare una sfera dorata, emanante, mentre si espandeva, una luce più intensa, di un colore bianco fiammeggiante.

Improvvisamente la sfera scoppiò, disseminando le tenebre di vivide scintille che non riuscirono a fugare le ombre. Ma, come un marchio impresso nell'oscurità, rimase una debole luminescenza che rivelò un gambo sottile e scuro che spuntava dal pavimento indistinto. Lo stelo si allungò sotto gli occhi dilatati della ragazza e prese forma, apparvero gemme e larghe foglie e grandi fiori neri velenosi che la sovrastarono, mentre lei si acquattava contro il velluto. Un profumo sottile pervase l'aria. Era la terribile sagoma del Loto Nero, che le era cresciuta sotto gli occhi così come cresce nelle giungle proibite del Khitai, infestate di spettri.

Le larghe foglie stormivano di vita malefica. I fiori le si chinavano addosso come cose senzienti, dondolando flessuosi sugli steli, come serpenti. Stagliato contro le tenebre ovattate e impenetrabili, il Loto Nero incombeva su di lei, gigantesco, tenebroso, eppure stranamente nitido. La testa le girava a quel profumo inebriante; cercò di scostarsi. Si afferrò al divano, che le parve stesse inclinandosi in modo impossibile. Urlò di terrore e si abbarbicò al velluto, ma sentì che le dita perdevano inesorabilmente la presa. Ebbe l'impressione che l'equilibrio e la stabilità si sgretolassero e svanissero. Era un atomo tremante di coscienza, trascinato attraverso un tenebroso golfo gelido da un vento ruggente che minacciava di smorzare il debole scintillio della sua esistenza come una candela spenta dalla bufera.

Poi ci fu un periodo di impulsi ciechi e di movimenti, quando l'atomo che era diventata si mescolò e si fuse con una miriade di altri atomi di vita generata nella palude in fermento dell'esistenza, modellato da forze formative, finché non emerse nuovamente come individuo cosciente, turbinando lungo una spirale infinita di vite.

In una nebbia di terrore rivisse tutte le sue esistenze precedenti, riconobbe e fu di nuovo tutti i corpi che avevano contenuto il suo io attraverso ere mutevoli. Si scorticò di nuovo i piedi lungo la strada interminabile e faticosa della vita, che si snodava alle sue spalle fino al passato immemorabile. Ritornò al di là delle più oscure albe del Tempo, si acquattò tremante in giungle primordiali, cacciata da belve con la bava alla bocca. Vestita di pelli, guadò risaie immersa fino alla cintola, contendendo i preziosi chicchi a uccelli acquatici dal verso stridulo. Si affaticò dietro i buoi spingendo il bastone appuntito nella terra avara, e rimase accoccolata interminabilmente davanti al telaio dentro catapecchie di contadini.

Vide città circondate da mura esplodere in fiamme, e fuggì urlando davanti agli uccisori. Vacillò nuda e sanguinante sulle sabbie brucianti, trascinata alla staffa dei mercanti di schiavi, e conobbe la stretta di mani calde e feroci sulla carne tremante, l'onta e l'agonia della violenza carnale. Urlò sotto il morso della frusta, e gemette sotto la tortura; pazza di terrore, lottò contro le mani che la forzavano inesorabilmente a posare la testa sul ceppo del carnefice.

Conobbe le agonie del parto e l'amarezza dell'amore tradito. Patì tutti i dolori, i torti e le brutalità che l'uomo ha inflitto alla donna attraverso i millenni; e sopportò tutto l'astio e la crudeltà della donna verso la donna. E, per tutto quel tempo, come lo schiocco di una frusta spietata, conservò la consapevolezza di essere una Devi. Fu tutte le donne che era stata, sapendo tuttavia di essere Yasmina. Questa consapevolezza non andò perduta attraverso le sofferenze delle reincarnazioni: era la schiava nuda che strisciava sotto la frusta, e nello stesso tempo l'orgogliosa Devi della Vendhya. E soffrì non solo come aveva sofferto la schiava, ma anche come Yasmina, per il cui orgoglio la frustra era come un marchio rovente.

Le vite si mescolarono alle vite nel caos sfuggente, ognuna con il suo fardello di dolore, vergogna e sofferenza, finché udì confusamente la sua stessa voce che urlava insopportabile, in un lunghissimo lamento di sofferenza che echeggiava attraverso i secoli.

E poi si risvegliò nella mistica stanza, sul divano coperto di velluto.

In una spettrale luce grigiastra vide di nuovo l'altro divano e l'indecifrabile figura sedutavi sopra. La testa incappucciata reclinata, le spalle alte erano appena accennate contro l'oscurità incerta. Non riusciva a distinguere chiaramente i dettagli, ma il cappuccio, al posto del copricapo di velluto, le suscitava un'inquietudine indefinibile. Mentre lo osservava, si insinuò in lei un'indicibile paura che le incollò la lingua al palato... la sensazione che non fosse il Maestro, colui che era seduto in silenzio su quel divano nero.

Poi la figura si scosse e si alzò, torreggiandole sopra. Avanzò nella sua direzione, e le lunghe braccia nelle ampie maniche nere si chinarono su di lei. Lottò contro di esse, piena di muto terrore, sorpresa dalla loro esilità e dalla loro durezza. La testa incappucciata si chinò verso il suo volto, piegato di lato per la repulsione. E lei urlò, e urlò ancora di paura e di estremo orrore. Braccia scheletrite si strinsero sul suo corpo flessuoso, e il cappuccio rivelò le stigmate della morte e della corruzione... un volto di pergamena consunta su un putrido teschio.

Urlò di nuovo, e poi, quando quelle fauci ghignanti si protesero verso le sue labbra, perse conoscenza...

 

9.

 

Il sole era sorto sorpa i bianchi picchi himeliani. Ai piedi di un lungo pendio, un gruppetto di cavalieri si fermò e guardò in alto. A notevole altezza una torre di pietra si teneva in equilibrio sulla cima del fianco della montagna. Oltre la torre, più in alto, luccicavano le mura di un torrione più grande, vicino alla linea che segnava l'inizio delle nevi che incappucciavano la vetta dello Yimsha. Tutto il paesaggio era pervaso da un tocco d'irrealtà... erte violacee che si avventavano contro il fantastico castello, quasi un giocattolo in lontananza e, più in alto, il picco bianco e splendente che sorreggeva il freddo azzurro del cielo.

«Lasciamo qui i cavalli,» brontolò Conan. «È più sicuro percorrere a piedi queste scarpate insidiose. E poi le bestie non ce la fanno più.»

Smontò di sella, e lo stallone nero rimase con le zampe divaricate e la testa ciondoloni. Avevano cavalcato duramente per tutta la notte, mangiucchiando un po' delle provviste che avevano nelle borse, fermandosi solo per far riposare i cavalli lo stretto necessario.

«Nella prima torre ci sono gli Accoliti dei Veggenti Neri», continuò Conan. «Almeno così li chiama la gente; Maghi meno bravi... cani da guardia per i padroni. Non credo che staranno a girarsi i pollici, mentre andiamo su.»

Kerim Scià lanciò un'occhiata verso la cima della montagna, e poi alla strada già fatta; avevano superato una buona parte delle pendici dello Yimsha, e sotto di loro si stendeva un'ampia distesa di picchi più bassi e di burroni. Il turaniano cercò invano in mezzo a quel labirinto una macchia di colore che tradisse la presnza di uomini. Evidentemente gli inseguitori Afghuli avevano perso le tracce del loro capo durante la notte.

«Andiamo, allora.»

Legarono gli animali affaticati in un boschetto di tamerici e, senza altri commenti, s'incamminarono per la scarpata. Non c'erano ripari. Era un pendio spoglio, cosparso di massi non abbastanza grandi per nascondere un uomo.. Ma sufficienti a nascondere altro.

Il gruppo non aveva ancora compiuto cinquanta passi, che una forma sbucò latrando da dietro una roccia. Era uno dei cani selvatici, tutti pelle e ossa, che infestavano i villaggi di montagna. Gli occhi gli brillavano e la bava gli colava dalle fauci. Conan procedeva davanti a tutti, ma il cane non attaccò lui. Lo scavalcò con un balzo e si avventò contro Kerim Scià. Il turaniano saltò di lato e il cagnaccio piombò sull'irakzai che veniva dopo. L'uomo urlò e alzò il braccio, che fu squarciato dalle zanne dell'animale, mentre cercava di spingerlo indietro; nello stesso istante una dozzina di tulwar colpirono il cane. Eppure la bestia non smise di cercare di sbranare gli uomini finché non fu fatta letteralmente a pezzi.

Kerim Scià fasciò il braccio ferito dell'uomo, lo guardò perplesso, poi si voltò senza far parola. Raggiunse Conan, e continuò a salire in silenzio.

«Strano, trovare un cane,» disse ad un tratto.

«Non ci sono immondezzai, qui,» aggiunse Conan.

Ambedue si girarono a guardare il ferito, che avanzava faticosamente assieme agli altri. Il sudore gli imperlava la faccia scura, e le labbra gli si erano contorte in una smorfia di sofferenza. Tutt'e due guardarono di nuovo verso la torre di pietra appollaiata più in alto.

Una quiete sonnolenta aleggiava intorno alla cima. La torre non mostrava segni di vita, né li mostrava la bizzarra costruzione piramidale dietro di essa. Ma gli uomini procedevano a fatica, con i nervi tesi, come se stessero costeggiando l'orlo di un cratere. Kerim Scià teneva pronto il potente arco turaniano che uccideva a cinquecento passi, e gli Irakzai cominciavano a far correre lo sguardo ai loro archi, più leggeri e meno letali.

Ma non erano ancora giunti a un tiro di freccia dalla torre, quando qualcosa si avventò dal cielo senza preavviso. Passò così vicino a Conan che il cimmero avvertì l'aria mossa dalle ali in movimento, ma fu un irakzai a barcollare e cadere, col sangue che sgorgava dalla giugulare recisa. Un falco con le ali simili ad acciaio brunito volteggiò in alto, col becco a scimitarra grondante di sangue, roteando nel cielo. La corda dell'arco di Kerim Scià schioccò, e il falco cadde come un sasso, ma nessuno riuscì a vedere dove toccò terra.

Conan si chinò sopra la vittima dell'attacco, ma l'uomo era già morto. Nessuno parlò: era inutile ricordare che non era mai successo che un falco si avventasse contro un uomo. Una rabbia furiosa cominciò a rivaleggiare con il letargico fatalismo delle anime selvagge degli Irakzai. Dita irsute incoccarono le frecce, e occhi attenti osservarono vendicativamente la torre, il cui silenzio sembrava deriderli.

Ma ben presto giunse l'attacco successivo. Lo videro tutti: una bianca palla di fumo che rotolò dal bordo della torre e venne giù per la scarpata. Altre la seguirono. Sembravano inoffensivi, semplici globi lanosi di schiuma fumosa, ma Conan si spostò di lato per evitare il contatto col primo. Dietro di lui un irakzai tastò con la punta della spada quella massa instabile. E immediatamente una secca denotazione scosse il fianco della montagna. Ci fu un'accecante esplosione di fiamme, e il globo svanì, mentre del guerriero troppo curioso non era rimasto che un mucchietto di ossa carbonizzate e annerite. La mano raggrinzita stringeva ancora l'elsa d'avorio, ma la lama era svanita... fusa e distrutta dal calore terribile. Eppure, gli uomini che si trovavano vicini alla vittima non ne avevano risentito, a parte il fatto di essere rimasti abbagliati e quasi accecati dal bagliore improvviso.

«L'acciaio li fa scoppiare,» brontolò Conan. «Guardate... eccoli che arrivano!»

Il pendio davanti a loro era quasi del tutto ricoperto di sfere ondeggianti. Kerim Scià tese l'arco e scagliò una freccia nel mucchio, e le sfere sfiorate dal dardo scoppiarono come bolle in una violenta fiammata. Gli uomini seguirono l'esempio del turaniano, e nei minuti che seguirono fu come se una tempesta infuriasse lungo la china, con fulmini e lampi che si abbattevano esplodendo in nugoli di fiammate. Quando lo sbarramento fu distrutto, nelle faretre degli Irakzai rimanevano pochissime frecce.

Continuarono ad avanzare con aria sinistra, attraverso il terreno carbonizzato e annerito, dove in quache punto la nuda roccia si era tramutata in lava per l'esplosione di quelle armi diaboliche.

Ora erano quasi a un tiro di freccia dalla torre silenziosa, e si sparpagliarono, con i sensi all'erta, pronti a qualsiasi orrore potesse piombare loro addosso.

Sulla torre comparve un'unica figura, che sollevò un corno di bronzo lungo dieci piedi. Il muggito stridulo esplose per i pendii echeggianti, come gli squilli delle trombe del giorno del giudizio. E ci fu una spaventosa risposta. La terra tremò sotto i loro piedi e brontolii e vibrazioni scaturirono dalle profondità sotterranee.

Gli Irakzai urlarono vacillando come ubriachi per il pendio squassato dal terremoto. Conan, con gli occhi accesi, si slanciò su per la scarpata, col tulwar in mano, dritto verso la porta che si vedeva nel muro della torre. Sopra di lui il grande corno ruggiva squillante, in una brutale presa in giro. Poi Kerim Scià tese l'arco e lasciò partire una freccia.

Era un tiro che solo un turaniano avrebbe potuto eseguire. Lo squillo del corno cessò bruscamente, mutandosi in un grido acuto. La figura vestita di verde che stava sulla torre barcollò, cercando di afferrare la lunga asticciola vibante che gli si era conficcata nel petto, poi giacque riverso sul parapetto. Il grande corno cadde sul muraglione restando in equilibrio precario, e un'altra figura vestita di verde corse fuori per afferrarlo, urlando di orrore. L'arco turaniano schioccò ancora, e ancora ottenne in risposta un grido di morte. Il secondo Accolito, cadendo, urtò col gomito il corno, facendolo rotolare oltre il parapetto e mandandolo a fracassarsi sulle rocce sottostanti.

Conan era andato avanti a tale velocità che già cercava di spaccare il portone quando gli echi della caduta del corno non si erano ancora spenti. Avvertito da un istinto barbarico, fece un rapido balzo dall'alto. Ma l'istante successivo era di nuovo alle prese col portone, scheggiando i pannelli di legno con furia raddoppiata. Si sentiva galvanizzato perché i nemici stavano facendo ricorso ad armi terrene. La Magia degli Accoliti aveva dei limiti. Probabilmente le loro risorse negromantiche si erano esaurite.

Kerim Scià si stava affrettando per il pendio, e i montanari gli erano dietro, disposti in un ampio semicerchio. Mentre correvano, scagliavano frecce, che si spiaccicavano contro il muro o sorvolavano il parapetto.

Il pesante portale di tek cedette sotto i colpi del cimmero. Conan cautamente guardò dentro, aspettandosi qualcosa. Davanti a lui c'era una stanza circolare, con una scala a chiocciola che portava al piano superiore. Nella parete opposta della stanza c'era una porta socchiusa, che rivelava il pendio dietro la torre... e le schiene di una mezza dozzina di figure vestite di verde in piena ritirata.

Conan lanciò un urlo, fece un passo dentro la torre, e l'innata cautela lo costrinse a indietreggiare subito, proprio mentre un grande blocco di pietra si schiantava al suolo dove un attimo prima aveva posato i piedi. Lanciando un richiamo agli altri, si lanciò di corsa girando attorno alla torre.

Gli Accoliti avevano abbandonato la prima linea di difesa. Conan vide le loro vesti verdi balenare su per la montagna davanti a lui. Si buttò all'inseguimento, ansando, assetato di sangue, e alle sue spalle c'erano Kerim Scià e gli Irakzai, furiosi. I montanari abbaiavano come cani alla vista dei nemici in fuga, e il senso del trionfo, per il momento, aveva avuto ragione del loro fatalismo.

La torre si trovava sul lato più basso di una stretta piattaforma la cui pendenza era appena percettibile. Dopo poche centinaia di braccia, la piattaforma terminava bruscamente in un burrone, che era invisibile dal basso. Sembrò che gli Accoliti saltassero in quel burrone, senza rallentare la corsa. Gli inseguitori videro le vesti verdi svolazzare e sparire oltre il ciglio.

Qualche attimo dopo si fermarono sul margine del colossale fossato che sbarrava loro la strada verso il castello dei Veggenti Neri. Si trattava di un crepaccio dalle pareti a picco, che si allungava a perdita d'occhio da entrambi i lati, come se cingesse la montagna, ampio circa cento braccia e Profondo centocinquanta. Ed era pieno, da orlo a orlo, di una strana nebbia traslucida, scintillante e luccicante.

Conan guardò di sotto. Molto più in basso vide le sagome degli Accoliti vestiti di verde che si muovevano sul fondo del burrone, che scintillava come argento polito. I contorni delle figure erano ondeggianti e indistinti, come se fossero immerse nell'acqua. Camminavano una dietro l'altra, verso la parete opposta.

Kerim Scià incoccò una freccia e la scagliò in basso. Ma, quando colpì la nebbia che riempiva il burrone, la freccia sembrò perdere di velocità e deviare, cambiando completamente traiettoria.

«Se loro sono scesi giù, possiamo farlo anche noi!», grugnì Conan, mentre Kerim Scià, sbalordito, seguiva con lo sguardo la freccia. «L'ultima volta che li ho visti erano proprio qui...»

Osservando con gli occhi socchiusi, scorse qualcosa di simile a un filo d'oro che attraversava il fondo del baratro molto più in basso. Sembrava che gli Accoliti seguissero quel filo, e di colpo ricordò le parole sibilline di Khemsa: «Segui la vena d'oro!». Si stese per terra e la trovò, sul ciglio, proprio sotto le sue mani: una sottile venatura d'oro scintillante che correva da un affioramento di minerale fino all'orlo e scendeva fino al fondo argento. E trovò anche un'altra cosa, che gli era rimasta invisibile fino a quel momento a causa della particolare rifrazione della luce. La vena d'oro seguiva una stretta rampa che scendeva nel burrone, nella quale erano state praticate delle nicchie per le mani e i piedi.

«Ecco come hanno fatto a scendere,» grugnì rivolto a Kerim Scià. «Non sono ancora degli Adepti, non possono camminare nell'aria. Li seguiremo e...»

Proprio in quel momento l'uomo che era stato azzannato dal cane rabbioso proruppe in un grido e si avventò contro Kerim Scià, schiumando bava e digrignando i denti. Il turaniano, rapido come un felino, balzò di lato e l'uomo impazzito precipitò a capofitto oltre l'orlo del burrone. Gli altri accorsero e lo guardarono stupefatti. L'uomo non cadeva come un sasso, ma fluttuava lentamente attraverso la nebbia rosata come uno che affondi in acque profonde. Le braccia e le gambe si muovevano come se cercasse di nuotare, e aveva i lineamenti cianotici e convulsi più di quanto non giustificasse l'attacco di pazzia. Infine, il corpo raggiunse il fondo dove giacque immobile.

«C'è la morte, in quel burrone,» mormorò Kerim Scià, scostandosi dalla nebbia rosata che gli luccicava quasi ai piedi. «Che facciamo ora, Conan?»

«Andiamo avanti,» rispose il cimmero con aria truce. «Quegli Accoliti sono uomini; se la nebbia non li uccide, non ucciderà neanche me!»

Si raddrizzò la cintura, sfiorando con la mano la fascia che Khemsa gli aveva dato; aggrottò le ciglia, poi sorrise senza allegria. Si era dimenticato di quella fascia: eppure per tre volte la morte gli era passata vicino, per mietere un'altra vittima al posto suo.

Gli Accoliti avevano raggiunto la parete più lontana e la stavano scalando, simili a grandi mosche verdi. Conan si abbassò e cominciò a scendere cautamente la rampa. La nuvola rosata gli lambì le caviglie, poi gli raggiunse le ginocchia, i fianchi, la cintola, le ascelle. Provava la stessa sensazione di immergersi nella nebbia densa e fitta di una notte umida. Esitò un attimo quando la caligine gli raggiunse il mento, poi si immerse deciso. Istantaneamente non riuscì più a respirare, l'aria gli mancò di colpo, e sentì le costole premergli contro i polmoni. Con uno sforzo frenetico si sollevò un po' più in alto, lottando per la vita. La testa emerse in superficie ed egli ispirò grandi boccate d'aria.

Kerim Scià si chinò verso di lui, parlandogli, ma Conan non lo sentì né gli prestò attenzione. Cocciutamente, con la mente fissa sulle parole che gli aveva mormorato Khemsa morendo, cercò la vena d'oro e scoprì che nella discesa se n'era allontanato. Parecchie serie di appigli erano scavate nella rampa. Ponendosi direttamente sopra la venatura, cominciò di nuovo a scendere. La caligine rosa si innalzò attorno a lui, lo inghiottì. Ora anche la testa era sommersa, ma continuava a respirare aria pura. Sopra di sé vide gli altri che lo osservavano, i lineamenti sfocati dalla nebbia. Fece segno di seguirlo e continuò a scendere rapido, senza aspettare di vedere se gli altri lo imitavano.

Senza far commenti, Kerim Scià rinfoderò la spada e gli andò dietro. Anche gli Irakzai lo seguirono, più spaventati dal pensiero di essere lasciati soli che dai terrori che si potevano nascondere in fondo al burrone. Ognuno seguì la vena d'oro, come videro fare al cimmero.

Percorsero la ripida rampa fino al fondo del burrone e avanzarono lungo il fondo piano, sempre seguendo la venatura, come acrobati sul filo. Era come se procedessero lungo una galleria invisibile, attraverso la quale l'aria circolava liberamente. Avevano la sensazione che la morte li premesse da sopra e dai fianchi, pur senza toccarli.

Gli Accoliti vestiti di verde li stavano aspettando, i coltellacci in mano. Forse avevano raggiunto il limite oltre il quale non potevano più ritirarsi. Forse il cinto stygiano che Conan portava ai finchi aveva fatto comprendere loro perché gli incantesimi magici si erano mostrati così inefficaci e si erano esauriti così rapidamente. Forse fu il pensiero della morte che li attendeva in caso di fallimento a indurli a saltare fuori dalle rocce, con gli occhi accesi e le spade scintillanti, facendo ricorso, disperati, ad armi materiali.

Quella che si svolse in mezzo alle punte rocciose sul margine del precipizio non fu battaglia da Stregoni: fu un turbinare di lame, con acciaio vero che mordeva e sangue vero che sgorgava, con braccia muscolose che vibravano colpi che squarciavano la carne, e con uomini che cadevano per essere calpestati nella furia della lotta.

Uno degli Irakzai fu ferito a morte in mezzo alle rocce, ma gli Accoliti caddero tutti... sventrati e fatti a pezzi, scagliati oltre l'orlo del baratro a fluttuare pigramente fino al fondo argenteo che brillava lontano.

I vincitori si pulirono sangue e sudore dagli occhi e si guardarono l'un l'altro. In piedi erano rimasti Conan, Kerim Scià e quattro degli Irakzai.

Si trovavano fra le rocce frastagliate che limitavano il ciglio del burrone, da dove un sentiero tortuoso percorreva il lieve pendio fino a un'ampia scalinata, comprendente una mezza dozzina di gradini lunghi un centinaio di piedi, intagliati in un materiale verde come giada. La scala portava a una larga piattaforma o terrazza, della stessa pietra levigata, sopra la quale si alzava, rastremandosi verso la cima, il castello a forma di piramide dei Veggenti Neri. Sembrava che fosse stato scolpito nella roccia stessa della montagna. L'architettura era perfetta, ma priva di decorazioni. Tutte le finestre erano munite di sbarre e mascherate da tende interne. Non c'era segno di vita, né amichevole né ostile.

 

Percorsero il sentiero in silenzio e con cautela, come uomini entrati nella tana di un serpente. Gli Irakzai erano taciturni, quasi marciassero verso un fato ineluttabile. Persino Kerim Scià se ne stava silenzioso. Soltanto Conan sembrava non avvertire quale mostruoso sovvertimento di antiche leggende e di azioni ben radicate, quale inaudita violazione della tradizione rappresentasse la loro intrusione. Conan non era un figlio dell'Oriente, e proveniva da una razza che combatteva Demoni e Stregoni con la stessa prontezza e con lo stesso spirito pratico dei nemici umani.

Percorse rapido la scalinata rilucente e l'ampia terrazza verdastra, e si avvicinò alla grande porta di tek intarsiata d'oro. Lanciò solo un'occhiata alle enormi file di massi che costituivano la struttura pidamidale che torreggiava su di lui. Fece per allungare la mano verso il battente di bronzo che sporgeva dalla porta come una maniglia, ma si trattenne, sogghignando con una smorfia crudele. Il batacchio era a forma di serpente, con la testa sollevata sul collo arcuato. E a Conan venne il sospetto che la testa di metallo si sarebbe sinistramente animata al tocco della mano.

La fece saltar via dalla porta con un colpo solo, e il tintinnio bronzeo sul pavimento lucido come specchio non gli fece diminuire le precauzioni. Spinse la maniglia di alto con la punta del tulwar e si rivolse nuovamente alla porta. Sulla torre incombeva un silenzio assoluto. I pendii sottostanti della montagna si perdevano in lontananza in una nebbia purpurea. A sinistra e a destra il sole scintillava sui picchi ammantati di neve. Molto in alto, un avvoltoio roteava come un punto nero contro l'azzurro gelido del cielo. A parte l'animale, l'unico segno di vita erano gli uomini davanti al portone intarsiato d'oro, minuscole creature in una terrazza verde giada appollaiata a quell'altezza vertiginosa, con quella fantastica pila di pietre che torreggiava loro addosso.

Un vento pungente proveniente dalle cime nevose li schiaffeggiò facendo svolazzare le vesti a brandelli. Il lungo tulwar di Conan, che scheggiava i pannelli di tek, provocò una serie di echi. Il cimmero continuò a colpire, squarciando legno e intarsiature. Poi si fermò a guardare attraverso l'apertura frastagliata, sospettoso come un lupo. Vide un'ampia stanza, con i lisci muri di pietra privi di tendaggi, il pavimento a mosaici, senza tappeti. Il mobilio era formato esclusivamente da sgabelli quadrati di lucido ebano e da una panca di pietra. Nella stanza non c'era vita umana. Nella parete opposta si vedeva un'altra porta.

«Lascia un uomo fuori di guardia,» grugnì Conan. «Io entro.»

Kerim Scià fece un cenno a un guerriero, che tornò al centro della terrazza, con l'arco pronto, Conan entrò nel castello, seguito dal turaniano e dai tre Irakzai sopravvissuti. L'uomo rimasto fuori sputò, si grattò la barba, e sobbalzò improvvisamente al suono di una bassa risata sfottente.

Sollevò la testa e vide, sulla gradinata sopra di lui, una figura vestita di nero, a capo scoperto, che muoveva leggermente la testa, osservandolo. Tutto l'atteggiamento suggeriva derisione e malignità. Rapido come il lampo, l'irakzai fletté l'arco e lasciò partire una freccia, che andò a colpire in pieno petto la figura vestita di nero. Ma il sorriso sfottente non cambiò. Il Veggente strappò la freccia e la lanciò di rimando all'uomo, non come si scaglia un'arma, ma con un gesto sprezzante. L'irakzai schivò, alzando il braccio d'istinto. Le sue dita si chiusero attorno all'asticciola roteante.

E allora urlò. Nella mano l'asticciola di legno era stata improvvisamente percorsa da un brivido. La forma rigida divenne flessibile, adattandosi alla stretta. Cercò di scagliarla lontano, ma era troppo tardi. Nella mano nuda reggeva un serpente vivo, che già gli si era arrotolato attorno al polso, con la maligna testa triangolare che morse il braccio muscoloso. Urlò di nuovo, gli occhi gli si gonfiarono, i lineamenti diventarono violacei. Si piegò sulle ginocchia, scosso da convulsioni terribili, poi giacque immobile.

Gli uomini dentro la torre si erano voltati al primo grido. Conan fece un rapido passo verso la porta spalancata, fermandosi poi di colpo, stupito. Agli uomini dietro di lui sembrò che lottasse contro l'aria. Ma anche se non riusciva a vedere niente, il cimmero sentiva sotto le mani una superficie liscia e dura, e intuì che una lastra di cristallo era stata calata nel vano della porta. Attraverso di essa poteva vedere l'irakzai immobile sulla terrazza levigata, con una comunissima freccia conficcata nel braccio.

Conan alzò il tulwar e colpì, e gli altri rimasero sbalorditi a guardare i colpi che si fermavano apparentemente a mezz'aria, udendo il pesante clangore dell'acciaio che colpisce una sostanza rigida. Il cimmero non sciupò altri sforzi. Sapeva che nemmeno il leggendario tulwar di Amir Khurum avrebbe potuto infrangere quella barriera invisibile.

In poche parole spiegò la faccenda a Kerim Scià. Il turaniano si strinse nelle spalle. «Beh, se l'uscita è sbarrata, dovremo trovarcene un'altra,» disse. «Nel frattempo, la strada porta avanti, no?»

Con un grugnito Conan si voltò e attraversò la stanza fino alla porta nella parete opposta, con la sensazione di varcare la soglia della sventura. Mentre alzava il tulwar per colpire la porta, essa si aprì silenziosamente, come di sua spontanea volontà. Conan entrò in un grande salone, fiancheggiato da alte colonne di cristallo. A un centinaio di piedi dalla porta, cominciavano gli ampi gradini verde giada di una scalinata che si restringeva verso la cima come la faccia di una piramide. Cosa ci fosse dietro la scalinata non poteva dirlo, ma fra lui e la base scintillante c'era un curioso altare di giaietto splendente. Quattro grandi serpenti d'oro intrecciavano le code attorno a quell'altare e sollevavano in aria le teste triangolari, fronteggiando i quattro punti cardinali, come guardiani incantati di un favoloso tesoro. Ma, sull'altare, fra i colli arcuati, c'era solo un globo di cristallo, pieno di una sostanza fumosa, nella quale fluttuavano quattro melagrane d'oro.

A quella vista sentì risvegliarsi un oscuro ricordo, ma distolse subito l'attenzione dall'altare, perché sui gradini più bassi della scalinata c'erano quattro figure vestite di nero. Non le aveva viste venire. C'erano, semplicemente: alte, magre, con teste d'avvoltoio che si muovevano all'unisono, con i piedi e le mani nascosti dalle ampie vesti.

Uno dei quattro alzò il braccio: la manica ricadde indietro rivelando la mano... che non era affatto una mano. Conan si fermò con un piede alzato, costrettovi contro la sua volontà. Aveva incontrato una forza che differiva sottilmente dall'ipnotismo di Khemsa, e non poteva avanzare, anche se sentiva che, volendolo, poteva indietreggiare. Anche i suoi compagni si erano fermati come lui, e sembravano anche più inermi, incapaci di muoversi in qualsiasi direzione.

Il Veggente che aveva alzato il braccio fece un cenno a uno degli Irakzai, e l'uomo si mosse nella sua direzione come in trance, con gli occhi spalancati e fissi, il tulwar che pendeva fra le dita inerti. Mentre oltrepassava Conan, questi gli mise un braccio davanti al petto, cercando di fermarlo. Il cimmero era talmente più forte dell'irakzai che, in circostanze normali, avrebbe potuto spezzargli la spina dorsale con le mani. Ma ora il braccio gli venne spinto via come un fuscello, e l'irakzai si diresse verso la scalinata, procedendo a scatti, meccanicamente. Raggiunse i gradini e si inginocchiò, rigidamente, offrendo l'arma e chinando la testa. Il Veggente prese il tulwar, che balenò in alto e poi in basso. La testa dell'irakzai cadde con un tonfo sordo sul pavimento di marmo nero. Un arco di sangue sgorgò dalle arterie recise e il corpo scivolò in avanti dove giacque con le braccia spalancate.

Di nuovo una mano informe si alzò e fece un cenno: un altro irakzai avanzò rigido incontro al suo destino. La scena orribile si ripeté e un altro corpo senza testa giacque accanto al primo.

Mentre il terzo montanaro gli passava a fianco andando incontro alla morte, Conan, con le vene che gli pulsavano nelle tempie per lo sforzo di infrangere la barriera che lo tratteneva, fu improvvisamente conscio di forze amiche, invisibili, che si stavano destando intorno a lui. La sensazione giunse senza nessun preavviso, ma in modo così netto che non poté dubitare del suo istinto. Fece involontariamente scivolare la sinistra sotto la fascia, e la strinse attorno alla cintura stygiana. E, stringendola, sentì una nuova forza fluirgli nelle membra paralizzate; la voglia di vivere era un fuoco rovente che gli pulsava dentro, eguagliato solo dall'intensità della rabbia che lo consumava.

Il terzo irakzai era un cadavere decapitato e l'orrendo dito si stava alzando di nuovo, quando Conan sentì che l'invisibile barriera si spezzava. Un grido feroce gli proruppe involontariamente dalle labbra, mentre balzava con l'esplosiva rapidità della ferocia repressa. Con la sinistra stringeva la cintura del Mago come un naufrago stringe un pezzo di legno, e il tulwar era un lampo di luce nella destra. Gli uomini sui gradini non si mossero; lo guardarono calmi, impassibili. Se provarono sopresa non lo diedero a vedere. Conan non si permise di pensare a cosa sarebbe potuto capitare quando fosse arrivato a tiro dei quattro. Il sangue gli pulsava nelle tempie, una nebbia scarlatta gli era scivolata davanti agli occhi. Era bruciato dall'impulso di uccidere... di conficcare profondamente la lama nella carne e nelle ossa, di girare il ferro nelle viscere sanguinanti.

Un'altra decina di passi lo avrebbe portato vicino a quei demoni beffardi. Trasse un lungo sospiro, con la rabbia che diventava incandescente mentre raccoglieva tutte le sue forze per la carica. Si stava avventando oltre l'altare con i serpenti dorati, quando in un lampo abbagliante gli tornarono in mente, vivide come se fossero pronunciate allora al suo orecchio, le oscure parole di Khemsa: «Rompi la sfera di cristallo!»

La sua reazione fu quasi automatica. Il suggerimento fu messo in pratica così spontaneamente che il più grande Stregone non avrebbe avuto il tempo di leggergli nella mente e prevenire la sua azione. Guizzando come un felino a metà della carica, abbatté il tulwar sulla sfera di cristallo. Istantaneamente l'aria vibrò con uno scroscio di terrore: impossibile capire se provenisse dalla scalinata, dall'altare o dal cristallo stesso. Le orecchie gli si riempirono di sibili quando i serpenti dorati, improvvisamente vibranti di una orribile vita, si contorsero e tentarono di colpirlo. Ma egli esplose con la rapidità di una tigre impazzita. Un turbinio d'acciaio si abbatté sui corpi orrendi che ondeggiavano verso di lui, e colpì ripetutamente la sfera di cristallo. E il globo scoppiò con un rumore di tuono, facendo piovere frammenti infocati sul marmo nero, e le melagrane d'oro, come liberate dalla prigionia, balzarono in alto verso il soffitto e svanirono.

Un urlo impazzito, bestiale e terrificante, echeggiò attraverso il grande salone. Sui gradini quattro figure vestite di nero si contorsero convulsamente, con la bava che colava dalle labbra livide. Poi, con un terribile crescendo di ululati, si irrigidirono e rimasero immobili, e Conan seppe che erano morte. Osservò l'altare e i frammenti di cristallo. Attorno all'altare erano ancora attorcigliati quattro serpenti dorati privi di testa, ma nessuna vita adesso animava il metallo luccicante.

Kerim Scià si stava alzando lentamente sulle ginocchia, come se fosse stato abbattuto da una forza invisibile. Scosse la testa per liberarsi le orecchie dal ronzio.

«Hai sentito quello scoppio mentre colpivi? Era come se centinaia di pannelli di vetro fossero andati in frantumi per tutto il castello, quando è scoppiato il globo. Può darsi che le anime di quei Maghi fossero imprigionate nelle quattro sfere d'oro... ah!»

Conan si girò, mentre Kerim Scià sguainava la spada indicando qualcosa con la punta.

In cima alle scale c'era un'altra figura. Anche la sua veste era nera, ma di velluto finemente ricamato; in testa portava un copricapo di velluto. Aveva il volto tranquillo, e lineamenti piacenti.

«E tu, chi diavolo sei?», chiese Conan, guardandolo dal basso, con il tulwar pronto.

«Sono il Maestro dello Yimsha!» La voce era melodiosa come le campanelle di un tempio, ma era percorsa da una nota di riso crudele.

«Dov'è Yasmina?», chiese Kerim Scià.

Il Maestro gli rise in faccia.